Editoriali

L'importanza di un abbonamento

Qualche giorno fa ci siamo trovati a parlare con un collega di una testata dell’Emilia Romagna che ci raccontava la svolta del suo giornale con l’apertura di una pagina dedicata ai lettori. Già, il classico spazio delle lettere, quello che costituisce un po’ l’humus di una comunicazione funzionale e vivace. Ebbene, il foglio emiliano ha ripreso mordente, ha messo il giusto ingrediente per rilanciare l’interesse per la “res pubblica” cittadina. Qui non ci sono strategie da adottare o algoritmi da seguire. Da sempre il rapporto con i nostri lettori è il sale della quotidianità, l’imprinting di un percorso fatto di scelte e di proposte che mettono al centro la persona che ci legge e ci segue. Siamo partiti con la nuova campagna abbonamenti in linea con le altre annate (ci muoviamo un pochino prima degli altri perché offriamo una possibilità vantaggiosa peri nuovi abbonati: basta andare a pag. 32), puntando sul nome del nostro settimanale che si presta a notevoli giochi di parole. L’Azione, termine inflazionato, con forti spazi che spingono ad una positività e che inducono a messaggi di felice effetto. Una buona azione. Quante volte l’abbiamo richiesta e desiderata sfogliando velocemente le pagine di un giornale o ascoltando la sera la televisione. Eppure è tutta una cascata di crude litigiosità e di autentiche follie di violenza. Dove stiamo andando? E da dove ripartire? Non dobbiamo inventarci nulla, solo imparare a guardare. Magari da chi guarda meglio di noi. Ovvero una compagnia, amici che ci sanno indicare luoghi e fatti che danno un respiro più pulito, più sano. Senza camuffare la realtà che sembra tagliarci le gambe, come diceva un grande autore come Pavese. «La vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze. È un fastidio alla fine […]. C’è una burrasca che rinnova le campagne - né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate - quest’è il vivere che taglia le gambe. Cesare Pavese ha identificato bene la sfida che ciascuno di noi è chiamato ad affrontare ogni giorno. Non è davanti alle grandi burrasche che ci giochiamo la partita del vivere. Per quelle possiamo riuscire perfino a tirare fuori delle energie a noi sconosciute. È la fatica interminabile del quotidiano che fa scalpore. Perciò è davanti al quotidiano «vivere che taglia le gambe» che ogni ideologia, teoria o credenza misura la sua verità in questi tempi postmoderni. Nel grande mercato delle ideologie tutto sembra avere lo stesso valore. Una teoria vale l’altra. Niente di nuovo sotto il sole. Lo scetticismo accomuna tutte le posizioni. Un sentore che sperimentiamo tutti i giorni quando in redazione costruiamo un prodotto che arriva settimanalmente nelle vostre case e nelle edicole.?Noi cristiani siamo i primi interessati a verificare la sua capacità di rispondere a tale sfida. Il cristianesimo nel nostro tempo ha subito l’influsso della mentalità dominante e si trova davanti a concezioni diverse di esso, più o meno contrastanti tra di loro. Ridotto a un’altra ideologia tra le tante, appunto. O a un’altra etica. O a un altro culto. Ma qualsiasi sia l’immagine che ognuno si fa del cristianesimo, trova la sua pietra d’inciampo in questa sfida, che nessuno può cercare di evitare, tanto è stringente.?È la vera natura del cristianesimo che ne va di mezzo. Ce la ricorda chi meno avremmo potuto immaginare: «“Il cristianesimo – dice il grande Wittgenstein – non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà dell’anima umana, bensì una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo”. Siamo lì, su questo crinale ad offrire un lavoro che guardi alla persona, ai suoi bisogni, che non si vesta di pailettes e decorazioni per apparire più affascinante, ma che raggiunga il cuore vero della notizia. Ecco perché le pagine del dialogo sono il segno più profondo di questa piccola e silenziosa rivoluzione. I protagonisti tornano ad essere i lettori, i loro problemi toccanti e spesso irrisolvibili. Ci scrivono, tendono la mano, chiedono un confronto, vogliono una risposta. Abbiamo visto il dramma dell’alluvione che ha coinvolto pesantemente anche il nostro territorio. Il clichè di approccio è sempre quello. Tanti microfoni, tante telecamere, tanti taccuini in avvio, all’inizio di ogni storia dai risvolti disastrosi, poi c’è come un distacco, quasi fisiologico, uno scadere nell’abitudinarietà: inutile ritornare a parlare. Invece è in quei frangenti che bisogna stringersi più vicino, far sentire il calore di una comunità, il bene di un abbraccio e di una parola confortante. Ridare voce a chi sembra cedere alla rassegnazione ed allo scoramento. Per questo ogni settimana, ad esempio, la nostra giornalista Veronique Angeletti racconta le difficoltà, gli inciampi, le fatiche della realtà di Sassoferrato (che sta sopportando le ferite più grosse) che non si arrende, ma che vuole gridare tutta la sua voglia di riscatto e di aiuto. Ci siamo e ci saremo ogni sette giorni con storie, incontri ed immagini di un vissuto che non possiamo dimenticare. O come gli scritti di altri lettori (la settimana scorsa un cittadino di Borgo Tufico) che ci mettono al corrente di disagi concreti che rappresentano un ostacolo alle proprie necessità di un vivere che appunto fa di tutto per…tagliarci le gambe. Proprio sull’ultimo numero abbiamo inserito il bollettino per l’abbonamento. Non è un gesto scontato, quasi rituale. E’ l’espressione più genuina di un rapporto che vediamo crescere e che ci riempie di gratitudine. Anche se quest’anno, e lo abbiamo detto, siamo stati costretti a portare il prezzo a 45 euro proprio a causa dell’aumento del costo dell’energia che ha determinato un sostanzioso incremento dei costi di carta e tipografia. I nostri cari lettori, lo vediamo in questi giorni, lo hanno compreso e desiderano starci accanto per continuare insieme questo legame di amicizia e di fedeltà. Anzi, ed è davvero commovente, ci sono anche abbonati che allargano il gruppo, proponendo ‘L’Azione’ ad altri come una possibilità di crescita, di conoscenza sul territorio, di formazione civica per imparare a costruire un bene comune. Di un medico si dice che la sua non è una professione, ma una missione. E le troppe vittime in camice bianco durante la pandemia ci hanno ricordato, e ci ricordano, quanto questo sia vero. Secondo il medesimo metro, lo stesso si può dire anche per molti altri mestieri, infermieri, vigili del fuoco, insegnanti... Chiunque abbia avuto a che fare con una di queste categorie sa riconoscere, quasi a fiuto, chi quel lavoro lo fa solo per sbarcare il lunario, e chi lo fa con vera passione, come si sentisse investito, appunto, da una missione. Ma questo può valere anche per i giornalisti? A guardarsi intorno con un minimo di disincanto, non si direbbe. Quelli che si definiscono con orgoglio i “cani da guardia della democrazia” sembrano molto più interessati al padrone che li tiene al guinzaglio piuttosto che alla democrazia che dovrebbero proteggere. O all’interesse di chi ci sta al fianco piuttosto che al nostro misero tornaconto. Auto-referenzialità, narcisismo, approssimazione sembrano oggi farla da padroni, e dove sia la verità è diventata una mera opinione. Tutto questo genera solo crescente ignoranza, che vediamo fiorire attorno a noi. Perché se è vero che l'informazione in sé non è cultura, e anche vero che non può esistere una cultura disinformata, in quanto è la circolazione delle idee a far crescere la cultura, e se circolano idee monche, azzoppate, settarie, fasulle o addirittura false, è facile capire con quanta facilità lieviti l'ignoranza. ?È vero, ci sono sempre «difficoltà nel comunicare bene, e nella comunicazione c'è sempre anche qualche pericolo di trasformare la realtà», ha detto recentemente Papa Francesco. Così poi, come nella favola di Cappuccetto Rosso, va a finire che «uno racconta, comunica all'altro questo, questo lo comunica a questo, a quell'altro e quell'altro e a giro, quando torna, è come Cappuccetto rosso, che incomincia con il lupo che vuole mangiare Cappuccetto rosso e finisce con Cappuccetto rosso e la nonna che mangiano il lupo. No, non va la cosa! Una brutta comunicazione deforma la realtà».?Per fare buona comunicazione, questa dev'essere «pulita» ed «evangelica». Bisogna essere, in altre parole, dei veri «apostoli della comunicazione», ha detto Bergoglio. E ha spiegato: «Se noi prendiamo i mezzi di comunicazione di oggi, manca pulizia, manca onestà, manca completezza. La disinformazione è all'ordine del giorno: si dice una cosa ma se ne nascondono tante altre. Dobbiamo far sì che nella nostra comunicazione questo non succeda, non accada, che la comunicazione venga proprio dalla vocazione, dal Vangelo, nitida, chiara, testimoniata con la propria vita».?Serve una comunicazione «pulita, chiara, semplice». Perché il giornalismo, prima che una professione, è una vocazione, e la vocazione ti dà l'identità. Solo così la «comunicazione sarà poesia del comunicare bene». E noi di poesia ne vogliamo offrire molta perché ne abbiamo bisogno.

Carlo Cammoranesi