Editoriali

Le divisioni nelle feste

Tutte le volte che ci troviamo a celebrare il 25 aprile si scatena sempre un polverone che ci impedisce di scorgere la realtà, la verità che abbiamo di fronte. O magari anche il 1° maggio. Non è la memoria condivisa ciò che serve a un Paese. Anzi, inseguire questa chimera può essere rischioso, perché quando si vuole costruire la cosiddetta memoria condivisa si parte dal presupposto che ognuna delle parti abbia pari dignità nella ricostruzione storica, lo stesso diritto di essere ricordato con accezioni positive o quanto meno neutre. E quindi la memoria condivisa inseguita a ogni costo diventa la sintesi di memorie inevitabilmente diverse, mediata dalle forze politiche contemporanee e dai loro equilibri, ma non basata sulla verità storica. Nulla a che fare con la storia, quindi: semplicemente un’interpretazione. Adriano Prosperi, professore di Storia moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha scritto nel suo saggio ‘Un tempo senza storia’ (Einaudi, 2021) che "storia e memoria condivisa vanno in direzioni opposte. L’una esplora e racconta il passato, l’altra lo cancella e sull’oblio incide un patrimonio comune, tonificante e falso". Ciò che serve all’Italia non è la ricerca al ribasso di una memoria che vada bene a tutti, ma il rispetto della verità storica e il giudizio che ne deriva. L’urgenza non è appianare conflitti, ma non dimenticare. Il rischio c’è: quante falsità circolano sugli eccidi nazifascisti o sulla Shoah, quanti tentativi di negare le responsabilità. Ma la storia è chiara: carnefici e vittime sono distinti. Parliamo di giornata della Memoria, non della memoria condivisa. Una memoria non filtrata da interpretazioni, ma scritta col rigore della conoscenza storica. I costituenti lo sapevano: nella Carta non hanno trascritto una memoria che vada bene a tutti, ma hanno fissato i valori della nostra democrazia. Sentirsi italiani non significa condividere interpretazioni neutrali, ma i valori costituzionali. La nostra identità è quella: quei valori ci rendono cittadini al di là del luogo di nascita, del colore e della passione politica. Eppure tutti gli anni, a ridosso di una celebrazione che mete a tema il valore della libertà, il senso di una democrazia conquistata si alzano polveroni inutili e strumentali che allontanano e dividono. Oggi che al governo c’è una maggioranza di destra che vede tra le sue fila diversi esponenti dichiaratamente o (per motivi istituzionali) velatamente filofascisti, e con un Pd sempre più schiacciato su posizioni da sinistra radical-populista, la Festa della Liberazione ha perso la sua privilegiata occasione di unire tutti, diventando il terreno per puerili battaglie ideologiche. Ed è un vero peccato, perché il 25 aprile dovrebbe essere la festa di tutti coloro che si riconoscono nei valori della nostra Costituzione. A vincere, però rischiano di essere una volta di più i revisionismi: quello di una certa destra, più arrogante e insidioso, e quello di certa sinistra, che tenta da decenni di strumentalizzare il 25 aprile, utilizzandolo come clava contro gli avversari politici. Il revisionismo di destra afferma che tra il 1943 e il 1945 in Italia ci fu una guerra civile (e questo è vero) durante la quale furono commesse atrocità da entrambe le parti. La conclusione è che dunque non ci sarebbe stata una parte giusta e una sbagliata: si sarebbe trattato di una carneficina fratricida, nella quale ci sarebbero stati torti e ragioni su entrambi i fronti. E questo è del tutto errato. Per contro, il revisionismo di sinistra ha sempre raccontato i partigiani come eroi senza macchia, che, sventolando bandiere quasi solo rosse, avrebbero combattuto con una totale consapevolezza della propria azione storica, liberando l’Italia da soli. Questa narrazione non rende certo ragione della verità storica: ci sono i fatti, e poi ci sono i miti. Chi racconta che i partigiani hanno liberato l’Italia da soli, dimenticando il decisivo contributo degli Alleati, è sullo stesso piano di chi crede davvero che, durante la guerra di Troia, scendeva in campo con gli Achei un eroe invincibile chiamato Achille, capace con un solo assalto di uccidere decine di nemici. Un mito, appunto, che esalta solo chi ama le favole. Come uscirne? Innanzitutto, bisogna essere chiari: la Resistenza, la lotta partigiana, la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, sono un patrimonio storico da non dimenticare mai e che fonda il nostro stare insieme. È lapalissiano, ma di questi tempi vale la pena ribadirlo con forza. In secondo luogo, per liberarsi dalle strettoie dei contrapposti revisionismi, basterebbe ascoltare i testimoni dell’epoca. Nelle loro pagine potremmo riscoprire come la Resistenza sia fondamentale per ciascuno di noi e come possa essere un patrimonio vivo di tutti, in particolare dei giovani. Che proposta è la festa del 25 aprile? Che cosa significa essere liberati dalla dittatura? Che cos’è che libera davvero l’uomo da ogni dittatura? È chiaro che un lavoro di questo tipo è tutto fuorché intimista: esso rappresenta il contributo più alto che una persona possa dare al bene comune, si palesa come suggerimento potente di una strada per tutti coloro che cercano di essere liberati dalle dittature dell’esistenza. Non diverso, se vogliamo più drammatico, è l’invito che ci fa il Primo Maggio. La Festa del lavoro richiederebbe, infatti, di concepire il lavoro come una festa. In questo frangente storico molti ventenni vivono un rapporto col lavoro intrinsecamente malato: essi odiano il lavoro, vorrebbero che non esistesse. Il motivo è che per tanti di loro, se non tutti, il lavoro non è una festa, non è un appuntamento per la propria crescita personale, non è un’occasione di scoperta in cui imparare di più ad amare la fidanzata, il marito, i figli, il tempo. Non si vive per le ferie, ma si vive per la festa e dentro ogni lavoro c’è una festa che ci aspetta. Certamente la società deve garantire le condizioni migliori, a livello salariale e umano, perché l’esperienza del lavoro sia buona e fruttuosa, ma non c’è una condizione lavorativa che rende impossibile sperimentare la festa, una passione per la vita che rende ogni lavoratore un costruttore, uno che realmente può contribuire al bene di tutti con la sua fatica e i suoi limiti. Quello che oggi manca non sono le circostanze in cui testimoniare una strada diversa, più buona e più vera; quello che oggi manca è un impegno concreto con la materialità del vivere, con le occasioni che ci vengono date per approfondire di più la coscienza di noi stessi e l’urgenza di vita che ci portiamo dentro. Altrimenti finirà come con la pandemia o con la guerra in Ucraina: tutto si risolverà in una dialettica sterile in cui non cresce più nessuno. È chiaro che un impegno di questo tipo cambia la vita, cambia la mentalità, non ci permette di stare attaccati alle certezze che abbiamo maturato, ma apre ad un cammino in cui tutto è rimesso in discussione. Non c’è niente che non porti impressa una delicatissima possibilità di bene, pronta a svelarsi a chi accetta la fatica di un cammino. Ma occorre volerla questa fatica, riaccorgersi della verità per cui la vita sussiste, per contendere palmo a palmo il terreno alla notte, a quella ottusità sub-umana con la quale a volte al mattino ci alziamo, facciamo colazione e iniziamo la giornata. Non esiste festa se non c’è l’io, la persona, la nostra. Se sapremo accettare questa sfida allora le ricorrenze smetteranno di essere terreno di scontro ideologico, per tornare ad essere quello che sono: un appuntamento da non perdere con la nostra umanità. Teniamone conto ora che siamo vicini ad un’altra festa che dovrebbe unire: quella del 2 giugno. Evitiamo un terzo scontro per dividerci nella ricorrenza della nostra identità unitaria.

Carlo Cammoranesi