Editoriali

La prospettiva del docente

Ogni anno chi si appresta a tornare in cattedra deve fare i conti con la retorica. C’è chi approfitta dell’inizio della scuola per ricordare le drammatiche condizioni in cui versa l’istituzione scolastica in Italia, c’è chi punta alle necessità di una generazione fragile e apparentemente sfuggente come quella dei nostri adolescenti. Ci sono poi coloro che sottolineano la mancanza di personalità adulte mature o di insegnanti che sappiano essere anche veri educatori. Immancabili, infine, coloro che si prodigano nell’indicare nell’esperienza scolastica la panacea di tutti i mali. Educazione civica, finanziaria, affettiva, alimentare, stradale, alla legalità: tutto diventa materia di studio, nell’intima convinzione che siano le parole a cambiare il cuore dell’uomo. Negli ultimi vent’anni i docenti si sono dunque trasformati in burocrati, psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, operatori sanitari, sentinelle della legalità, tutor: in tanti avrebbero voluto parlare di Montale o dello studio di funzioni, ma si sono spesso ritrovati a gonfiare i manichini del primo soccorso; in molti desideravano far comprendere i motivi dello scoppio della Prima guerra mondiale o dell’apparente follia di Van Gogh, ma si sono ritrovati a dover affrontare l’unità didattica sulla cittadinanza digitale. Come se imparare non bastasse, come se la cultura non fornisse quel sufficiente spirito critico capace di dare uno sguardo e un’attitudine di fronte a tutto. L’esito di questo clima è una diffusa e generale perdita di passione, sostituita dall’emotività. Ci si emoziona perché la scuola comincia o finisce, perché quelli di quinta se ne vanno, perché una classe ringrazia, perché a tratti sembra che si sia ben seminato nel lungo cammino del triennio o del quinquennio. Ma l’emozione presto svanisce, passa, non dura. La prova di tutto questo è che chiunque, anche il più brillante insegnante, può essere facilmente sostituito: la scuola tutto assorbe e nessuno è davvero indispensabile. Anche coloro che erano stati indicati come “quelli che non dimenticheremo mai”, sono invece superati nel giro di un ciclo di studi, quando una prima – divenuta quinta – arriva in fondo senza averli mai conosciuti. Retorica ed emotività sono le due grandi tentazioni del docente, tentazioni che possono essere superate soltanto cambiando la prospettiva del proprio lavoro: a scuola non si va per insegnare, ma si va per imparare. Da quello che succede, sia esso preventivato o meno dal programma, il professore impara cose nuove di sé, della propria umanità, del proprio bisogno di essere uomo. Si impara dai ragazzi, dalle domande opportune e inopportune, si impara dai colleghi, dalle loro ansie e dai loro giudizi, si impara dai collaboratori scolastici, dalle loro strategie e dalla loro disponibilità. E si impara perfino dai genitori, che spesso tutto sono disposti a fare tranne fidarsi dell’adulto che hanno davanti. A volte capita di imparare qualcosa dai presidi, dai vice presidi, dalla segreteria: la scuola non è la comunità che salverà la nazione, ma è il luogo dove chi vuole può crescere, può mettere di più a fuoco le proprie ferite, le proprie solitudini, i propri bisogni. A scuola si va per ricevere tutto e per dare quello che rende bella la propria vita. Non c’è circostanza, insegnamento, studente o condizione che possa impedire ad un prof. di fare un cammino, di mettersi su una strada, di guadagnare qualcosa che nessuno può portare via e che non è soggetta alla memoria emotiva della collettività, qualcosa per la vita. Dietro ogni insegnante c’è un adulto: c’è quello che si deve sposare e quello che non ha alcuna intenzione di sposarsi, c’è chi sta per diventare madre e chi che ha figli ormai grandi e avviati, chi si porta un dolore nel cuore, una malattia nel corpo, una paura addosso, una domanda nelle viscere. Non si va a scuola per aderire ai modelli retorici che vanno per la maggiore, non si va a scuola per un’emotività, si va a scuola per una curiosità, per un’urgenza di vita, per la fiducia nel fatto che è in quel luogo – nella lealtà a quel luogo – che la realtà si farà più chiara, più nitida, più trasparente. Capiterà in uno strano cambio d’ora, durante una bislacca interrogazione, mentre accompagni un ragazzino disabile a toccare dei giocattoli, alla macchinetta del caffè. Nessuno conosce né il giorno né l’ora. Ma tutti conosciamo il luogo dove questo avverrà. Tra le grigie mura di un mattino d’inverno, di ritorno da un’allerta meteo, al termine di un pomeriggio dedicato per quattro ore ad un collegio docenti. Dio ha deciso di sorprenderci non sul palco delle nostre programmate liturgie, ma nel segreto delle stanze della storia. Nella grotta di Betlemme, in sala professori, nella stanza delle fotocopie. Dappertutto si nasconde quello che stiamo aspettando. Qualcuno se ne accorge al suono della campanella, qualcun altro salendo i gradini che portano all’ingresso della propria scuola. Quella scuola che dovrebbe tornare ad essere terreno di incontro e di formazione, di impegno e di cammino educativo. Senza pensare a quanto tempo si sia perso, svilendo un ruolo che galleggia nel limbo. E allora ci chiediamo se, alla luce di uno scenario scolastico così rappresentato, può una società aver paura dei suoi ragazzi, dei suoi figli? Nonostante le affermazioni ricorrenti sulla necessità anzitutto di educare, di fronte alla gravissima crisi che i nostri adolescenti stanno attraversando, la risposta che viene data invoca più che altro punizioni, strette alle regole, bonifiche. Segno di una paura che attraversa le nostre città di fronte ai comportamenti violenti, all’aggressività, agli attacchi del “branco”.  Forse bisogna riflettere su quanto siano il nostro specchio, nella paura della- sofferenza, nella voglia di violare per sfogare la rabbia. E su come dietro l’apparente somiglianza dei gesti di cronaca ci siano differenze che richiamano fortemente la responsabilità degli adulti: il mercato facile e il consumo di droghe e alcol anche da parte dei colletti bianchi, la dipendenza dagli smartphone appresa dai genitori stessi, che – come è ampiamente provato – diminuisce drammaticamente la capacità di provare empatia, l’incuria delle periferie, la negazione di dignità e cittadinanza alle nuove generazioni di immigrati.  Assumersi le responsabilità degli adulti non significa deresponsabilizzare i ragazzi, anzi. Più si ricorre a soluzioni che li vedono “oggetto” di provvedimenti apparentemente severi, più li si sta in realtà assolvendo senza chiedere loro più coscienza e impegno.  Mettiamo quindi i minori in cima all’agenda politica e sociale, ma senza bisogno di rassicurare l’opinione pubblica con misure inutili ad arginare fenomeni così complessi. Quindi ci si occupi della dispersione scolastica con attenzione prioritaria, mettendo al centro il merito degli insegnanti formati in modo adeguato alla complessità dei problemi. Bene i fondi alle scuole del Sud ma non vengano usati per le carenze della normale gestione. Bene la sospensione che non escluderà da scuola ma verrà svolta all’interno dell’istituto o facendo volontariato, più che i vari Daspo: tenere dentro, non spingere fuori.  Ci si concentri sulle assenze frequenti, predittive dell’abbandono, si colleghino le scuole ai servizi sociali (insufficienti) per cercare i ragazzi uno per uno, più educatori e educatrici di strada e centri di quartiere per le “baby gang”. Rigore e severità, questo sì, vanno esercitati contro il business delle dipendenze e per i controlli sulle piattaforme digitali. Altrimenti, come sempre, si rischia di essere forti solo coi deboli.

Carlo Cammoranesi