Editoriali

Domande sulla scuola per la politica

La notizia buona è che la scuola e la formazione delle giovani generazioni sono temi presenti nei programmi di quasi tutti gli schieramenti impegnati nella campagna elettorale. La notizia cattiva è che le proposte di quasi tutti i partiti, con pochi distinguo, continuano a privilegiare gli interessi di chi a scuola ci lavora invece che quelli di chi a scuola ci studia e ci va per ricevere una formazione adeguata alla complessità del nostro tempo.  Tutti dicono che bisogna stabilizzare gli insegnanti precari. Bene (anche se bisognerebbe discutere su come selezionarli…). Dicono che gli insegnanti vanno pagati meglio. Sacrosanto. Che anche nelle carriere docenti va introdotto il merito. Era ora. Che va estesa e rafforzata l’edilizia scolastica. Ci mancherebbe. Il problema è che nessuno – ma proprio nessuno – si interroga su quella che è la vera emergenza della scuola (e, per converso, della società) italiana. Cosa si insegna nelle aule? Che tipo di formazione viene offerta agli studenti? Che conoscenze e competenze vengono condivise? Cosa è urgente fare per formare giovani generazioni più colte, consapevoli e responsabili di quelle uscite negli ultimi anni dalle nostre scuole?  Non stiamo a ripetere se non in estrema sintesi dati ormai universalmente noti: siamo un paese che viaggia verso tassi di analfabetismo di ritorno preoccupanti, un italiano su due non è in grado di decodificare correttamente un testo scritto se contiene anche solo un periodo ipotetico o una frase sintatticamente men che elementare, abbiamo un numero di Neet (giovani che non studiano e non lavorano) incomparabilmente più alto di tutti gli altri paesi europei e la formazione tecnico-scientifica fa acqua da tutte le parti. Non solo: all’università arrivano giovani per cui la geografia è un optional e la storia contemporanea una galassia inesplorata. E siamo del tutto analfabeti in alcune delle discipline più necessarie per capire il mondo in cui viviamo: siamo poco oltre lo zero nella formazione economico-finanziaria, e lo stesso vale per lo studio dei media, dei loro linguaggi, delle loro tecniche di comunicazione e di seduzione. I nostri governi sono stati perfino multati dall’Unione Europea perché siamo gli unici a non prevedere la media literacy nei curricula scolastici, abbiamo pagato le multe e tutto è rimasto come prima.  Per di più, la scuola e l’università non sempre sono attrezzate per sviluppare negli studenti quelle abilità che tutte le rilevazioni più recenti indicano tra le più richieste dal mercato del lavoro dei prossimi anni: il pensiero critico, la capacità di risolvere problemi complessi, lo sviluppo della creatività. La scuola dovrebbe a cercare, scoprire, capire, interpretare, innovare. Ma per far ciò è necessario un pensiero alto. Uno scatto di immaginazione e di fantasia. Non è, una volta tanto, questione di soldi. La politica promette quelli. Invece in questo caso servirebbero prima di tutto pensiero, progetto, visione.  L’ultima riforma organica del nostro ordinamento scolastico risale paradossalmente alla riforma Gentile. 1923, poco meno di un secolo fa. Dopo ci sono stati aggiustamenti, adeguamenti, limature, ritocchi, riformine e controriformine. Ma nessuno ha mai provato a pensare e progettare seriamente quello che potrebbe e dovrebbe essere la scuola del futuro. C’è qualcuno tra le forze politiche impegnate nella campagna elettorale interessata e capace di farlo? Vedremo. Certo è che per metter mano a un progetto come questo bisognerebbe avere il coraggio di pensare più al futuro delle nuove generazioni che a vincere con promesse generiche o irrealizzabili le prossime elezioni. Guardare al futuro dei nostri ragazzi significa anche riscoprire la bellezza di dialoghi magari vissuti tra i banchi di scuola come occasione di crescita e non come tentativo di riuscita. Tempo fa leggendo un resoconto in classe un professore avevo chiesto ai suoi alunni se preferivano più l’Iliade o l’Odissea. La discussione si è accesa, con il solito esito scontato: ha vinto l’Odissea. Lì ci sono il viaggio, l’avventura, il fiabesco. Ci sono creature strane, magiche, orride: tutto è molto più vicino al gusto di oggi. Poi alza la mano una ragazza con una sensibilità eccezionale, che scrive temi meravigliosi. È perspicace, brillante. Eppure spesso è sfiduciata, abbattuta. È capace di grande generosità, ma allo stesso tempo ti dice con un cinismo spietato che la vita non ha alcun senso. Non vede la bellezza che ha dentro, come molte alla sua età: "Prof, io ho preferito l’Iliade". Sapete il perché? Perché Ulisse nell’Odissea è troppo perfetto. Troppo forte, troppo astuto, troppo sicuro di sé, troppo vincente. Nell’Iliade invece c’è l’incontro tra Achille e Priamo. La ragazza parlava della scena bellissima in cui Priamo, re di Troia, si reca nella tenda del nemico Achille per chiedere la restituzione del corpo di suo figlio Ettore, che proprio l’eroe greco ha ucciso. I due nemici si trovano faccia a faccia: Priamo si inginocchia di fronte ad Achille e lo supplica e Achille, l’eroe dell’ira, stupisce i lettori di ogni epoca commuovendosi. Achille pensa a suo padre lontano, lo rivede in Priamo. I due piangono insieme, divisi in guerra, uniti nel dolore. Uniti nell’umanità. Ulisse è troppo perfetto. Achille e Priamo invece sanno mostrare la spaccatura che hanno dentro, la loro fragilità. Io mi rivedo molto più in loro. Forse questa fatica vissuta insieme nei mesi duri della pandemia, forse le fragilità emerse durante la Dad, forse il dolore e lo smarrimento che ci hanno attraversato, possono aiutare tutti, dagli studenti ai docenti, a fare come ha fatto questa giovane: toglierci le maschere. Quelle maschere che i professori indossiamo quando se ne stanno duri e inflessibili dietro la cattedra; quelle maschere che gli adolescenti indossano per difendersi. La maschera del provocatore, dell’oppositivo, dello svogliato, del disilluso, e molte altre, ognuno la sua. Maschere che servono per nascondere le nostre insicurezze, che ci fanno tanta paura, ma che è così fondamentale per coltivare la nostra umanità. Sognare una scuola così, fatta di tanti Achille e Priamo. Una scuola dove i programmi non sono solo freddi elenchi di argomenti da verbalizzare, ma tappe di un cammino di condivisione. Una scuola dove le eccellenze vengono premiate, ma dove la prestazione non è un’ossessione e non diventa mai competizione. Una scuola dove le fragilità possano trovare casa. Perché la scuola in fin dei conti deve preparare alla vita, deve aiutare a essere felici, a cercare la propria verità. E non c’è verità senza dolore, come diceva il grande Umberto Saba: «Amai la verità che giace al fondo, / quasi un sogno obliato, che il dolore / riscopre amica». Con qualche maschera in meno, nonostante le eventuali mascherine. 

Carlo Cammoranesi