Editoriali

Fase due: le domande più urgenti

Adesso siamo alla fase due. Torniamo in mare aperto. Certo, adelante con juicio. Avanti ma stando all’occhio. Ripartenza progressiva. Differenziata. Misure precise. Leggere l’ultimo decreto. Distanziamenti (un metro, due, ics?). Comunque distanziamenti sociali. Mascherine (sì o no, dipende). Passeggiate (con o senza cane?).  Si va in tram (chi sale, chi no?). Senza ironia: le regole ci vogliono e non è facile per nessuno metterle a punto nel modo più equilibrato e ragionevole possibile, cioè che tenga conto di tutte le variabili in (drammatico) gioco: salute, economia, giustizia sociale, vita. Nulla è automatico. Quando ci siamo accorti che il Covid-19 non era un bluff che valesse la rinuncia al sacro rituale dell’aperitivo, invece che allo spritz ci siamo attaccati all’arcobaleno e allo slogan “andrà tutto bene”. Ci siamo attaccati al futuro. Poi fai la conta dei contagiati, dei morti, degli stress, di quanto cala il Pil, di quanto crescerà il debito pubblico, di quanto ha perso l’artigiano muratore, la parrucchiera, il precario da cooperativa; di quanto ti toglieranno per forza dalle tasche perché ha finito di pagare Pantalone… Basta un minimo di quella roba per rendersi conto che è un’illusione pensare di considerare “chiusa parentesi”. Ergo: la ripartenza dal futuro non regge. Poi, alla vigilia della ripartenza annunciata, abbiamo vissuto anche il 25 aprile. Anniversario della fine della guerra, ovvero della liberazione dal giogo nazi-fascista. I valori della resistenza. Che, nella lucida coscienza delle persone che conservano una grande ed equilibrata visione, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rappresentano la scintilla della possibile ripartenza di tutta la nazione dalla condivisione degli ideali di libertà, democrazia e solidarietà preminenti sui motivi di divisione. Ma non basta neanche qui. Passato e futuro, amarcord e utopia, possono essere una via di fuga dal presente. Cioè fuga dalla realtà verso il nulla. La prima cosa da non eludere sono le domande che il presente impone. Colpisce la risposta di Umberto Galimberti ad una lettrice (Repubblica): “In questo stato di spaesamento, non è il caso che vi rivolgiate alla vostra interiorità, che di solito trascurate, per sapere chi siete? Che cosa fate al mondo? Che senso ha la vostra vita? Queste riflessioni sarebbero un passo avanti per essere davvero uomini, perché vivere a propria insaputa non è proprio il massimo della propria autorealizzazione e per trovare un senso alla propria esistenza. Queste riflessioni sarebbero realmente un passo avanti per essere veramente uomini, perché vivere senza rendersene conto non è esattamente il massimo per la propria autorealizzazione e per trovare un senso alla propria esistenza”. Ci sono le domande. E ci sono le testimonianze che sono la possibilità di incontro con una traccia di risposta. Ripartire dal presente, ecco. Dall’esperienza di ciò che accade. I valori e la tradizione, ok. Il desiderio di un futuro, ok. Ma la ripartenza, per un essere libero, è sempre un nuovo inizio. Bisogna iniziare, da dove? Ora le città sono per lo più deserte, spettrali. Ahi voglia a dire che sono belle. Sono belle se le attraversa la vita, se si sente il suono delle parole, il rumore degli incontri. E la vita deve tornare, con le prudenze e le avvertenze necessarie. Senza una ripartenza che tenga conto delle esigenze primarie della salute, il Paese si sfarinerà. Smettiamo di parlare – dopo i numerosi morti, un indice di letalità superiore alla media mondiale, la strage degli anziani nelle Rsa e tralasciamo poi il moloch Pil – delle magnifiche sorti e progressive del modello italiano. Si dica chiaramente cosa bisogna fare. Poche avvertenze, chiare e non contraddette quotidianamente come avvenuto in passato a proposito di mascherine, test, reagenti, tempi di incubazione del virus, terapie e vaccini. In questo momento ciò che manca è un pensiero nitido che immagini e progetti il “mondo dopo”. Non abbiamo bisogno di tatticismi e polemiche. Ciò che è accaduto non passerà senza lasciare un solco nella storia dell’umanità. Il locale, il contrario del localismo, è la dimensione in cui, da sempre, la rete delle esperienze sociali ed umane si radica e si apre all’esterno. Essere cittadini del mondo o europei non significa rinunciare alla dimensione ultima e definitiva delle proprie radici. Dovremo immaginare nuove forme di lavoro, di trasporto, di consumo culturale, di apprendimento, di cura personale. La digitalizzazione consentirà di sentirsi parte di un mondo e non fortino impaurito, comunità afflitta da un localismo che diventa prigione. Dovremo rafforzare tutti gli strumenti di cooperazione e integrazione sovranazionale. Bisognerà ridisegnare il rapporto tra la necessaria ripresa di un ruolo pubblico nell’economia e la salvaguardia del tessuto delle piccole e medie imprese, che è il senso storico, non solo la peculiarità, della nostra economia. E definire forme di governo che esaltino la prossimità, il riavvicinamento della decisione politica alla vita dei cittadini. Come il virus dimostra, la realtà non si governa con i muri, ma con la cooperazione. Il tempo che verrà ha bisogno di forme di decisione globale, di ricerca scientifica coordinata, di coordinamento di politiche finanziarie. Se l’Europa non lo capirà, se gli Usa non si renderanno conto che non sarà dallo sgretolamento del nostro continente che si rafforzeranno, l’esito di questa crisi potrà essere ancora più grave. E dar credito a quel proverbio veneto che dice “Xe pèso el tacòn del buso”… peggio la toppa del buco! Con il buso che qui appare sempre più un abisso…