Editoriali

Quell'altro ponte da ricostruire

La ferita che ha aperto il crollo del ponte Morandi a Genova non è solo simbolica: una regione, una città, una comunità è stata fisicamente tagliata in due, lacerata. “Il ponte di Brooklyn”, come lo chiamavano i liguri e non solo, era il ponte delle partenze, degli arrivi, delle code, della familiarità con la città e vedere quel vuoto in mezzo a quei due piloni è vedersi portato via, tutto d’un tratto, un pezzo di sé, della propria storia, della propria identità. Quando accadono queste cose vorresti avere il potere di fermare il tempo, vorresti avere la possibilità di piangere, di capire, di andare a fondo. E invece no: il tempo va avanti, le persone continuano la loro vita e, superata una certa solidarietà iniziale, si rimane soli con quel vuoto e quel dolore. Noi marchigiani lo abbiamo sperimentato a più riprese con il terremoto. E molti stanno ancora aspettando qualcosa di veramente concreto a livello di fatti, di risposte, di segnali positivi. La questione è proprio questa: quando c’è un problema, importante è individuare un nemico, non cercare una soluzione. Scovare il responsabile, ma mai risolvere il problema. Le gazzarre e le diatribe di questi giorni su Genova, ma anche su altre sciagure, si fondano tutte su questo presupposto. Ernesto Galli della Loggia sulle pagine del Corsera lancia pesanti accuse affermando che “si tratta dell’indebolimento, fino alla sua virtuale scomparsa, della presenza dello Stato e quindi del venir meno di una sua funzione essenziale, quella del controllo e della sanzione. Autostrade per l’Italia può fare da anni ciò che le piace perché nessuno si è mai presa la briga di controllarla. Così come da anni le forze della Polizia stradale non ce la fanno a monitorare il settore dei tir in furiosa espansione, a controllare il rispetto dell’orario di lavoro degli autisti, a controllare l’adozione da parte degli automezzi degli appositi dispositivi di sicurezza”. Tutto vero, ma lo Stato è anche altro. Sono i vigili del fuoco che hanno scavato tra le macerie con efficienza asburgica e cuore mediterraneo. Sono gli infermieri ed i medici della sanità pubblica rientrati spontaneamente dalle vacanze di Ferragosto per dare una mano. E’ quell’agente della Stradale che, con modi gentili ma risoluti, ha convinto gli automobilisti a lasciare le macchine sul ponte per mettersi in salvo. Quindi il bersaglio della rabbia per questa reiterata inefficienza non è tanto lo Stato, quanto la politica, che si fa dare ordini dalla finanza, ne subisce il fascino e ha perso ogni contatto con la realtà quotidiana dei suoi elettori. Sul banco degli imputati ci finisce orbene la politica, ma anche i gestori delle infrastrutture, e addirittura, per qualcuno, anche Dio. Gli si chiede conto di dove fosse la sua onnipotenza mentre tutto avveniva, dove fossero i suoi miracoli e sue grazie. Curiosamente Dio, invece di difendersi, sembra tacere.  Questa volta non è andata così. La tragedia del “ponte delle condotte” è avvenuta alla vigilia di Ferragosto, alla vigilia dell’Assunzione al cielo di Maria. Una storia in cui la madre di Gesù, come tutte le donne, muore. E dopo quella morte dolorosa per tanti viene inaspettatamente chiamata da suo Figlio a godere per prima della sorte eterna che la fede promette a tutti gli uomini: la resurrezione del corpo, l’ascensione al cielo di tutta la sua storia. E’ così che Dio parla: non fermando le leggi della fisica che gli uomini non sanno ancora gestire nel costruire le loro strade e i loro ponti, non interrompendo il ciclo della biologia che prevede la morte anche ingiusta, ma, improvvisamente, ricominciando. E’ questo che fa Dio ogni giorno: ricomincia. E ricomincia non da un’altra cosa, ma da quel dolore, da quella storia, da quella ferita in cui tutto sembrava concorresse a gridare la parola fine. Dio non ricomincia da un’altra parte, Dio ricomincia da ognuno di noi. E’ questo lo straordinario del cristianesimo: non il favoleggiare un altro mondo dove tutto va a gonfie vele, ma la possibilità che questo mondo, questa sofferenza, questa apparente “fine” sia in realtà l’inizio di tutto. Dio risponde all’assenza di quel ponte con la sua presenza. Presenza che ha le mani dei soccorritori, gli occhi dei bambini che continuano a giocare tra le macerie, il cuore di tanti che tacciono, polemizzano o urlano. A Maria non è stata risparmiata la morte, ma non è stata l’ultima parola. Così a noi non è risparmiato quel ponte, le storie che abbiamo imparato a conoscere di chi non c’è più, il dolore lancinante, la paura del futuro, nemmeno il male: nulla ci è risparmiato. Ma tutto è assunto, è toccato perché si possa ripartire. Dopo il diluvio, dopo la schiavitù, dopo l’esilio, Dio offre sempre al suo popolo una nuova possibilità. La offre a chi Lo riconosce, a chi nella disgrazia non si indurisce, come il cuore del Faraone in Egitto, ma si affida e impara a chiedere. Dunque si può fare, ci si può alzare, si può ricominciare: possiamo salutare chi non c’è più, possiamo assumerci le nostre responsabilità, possiamo guardare tutto il nostro male, possiamo costruire un altro ponte. D’altronde le ferite diventano cicatrici e le cicatrici raccontano quello che abbiamo amato, i luoghi dove la grazia di Dio ha ricominciato. Come si è ricominciato anche dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale. Un paese da ricostruire. Una strada nuova da percorrere. Con l’assemblea costituente, e lo ricordiamo con orgoglio a 70 anni dalla nostra Costituzione, c’è stata la rinascita di un popolo dove ogni parte ha sì avuto la propria idea di ricostruzione, ma non è diventato un arroccamento ideologico, anzi si è piegato alla necessità del bene comune. Fu dalle viscere di un’esperienza condivisa, per quanto drammatica, che nacque l’altissimo senso di responsabilità dei Padri costituenti (dalle anime diverse, tra democristiani, comunisti e socialisti, basti pensare a De Gasperi o Togliatti), che fece nitidamente percepire ai più che “adesso toccava a loro”. Si sono incontrati, si sono guardati in faccia. L’incontro ha generato conoscenza e la conoscenza ha permesso il dialogo, quindi la fiducia, l’amicizia. A distanza di 70 anni è fondamentale ripensare a quell’inizio. E lavorare perché riaccada.