Editoriali

La ripresa negli oratori

Più che l’estate della ripartenza, sarà il tempo della tessitura. Per riannodare le relazioni sfilacciate dalle chiusure, per ricrearne da capo intrecciando fili nuovi, per restituire fiducia a ragazzi e famiglie. Dopo l’esperienza del 2020 – un vero laboratorio di riapertura avviato prima delle scuole – gli oratori e tutte le realtà associative impegnate nel campo educativo non si sono fermati e, nel rispetto delle norme e delle limitazioni imposte per il contenimento del contagio, hanno continuato ad accompagnare la vita dei bambini e dei giovani, con creatività e con modalità originali. E ora sono pronti ad accoglierli nei campi estivi che si stanno organizzando in tutta Italia, da Nord a Sud.  La sfida principale sarà quella di passare del tempo con gli adolescenti per ascoltarli e per costruire con loro la Chiesa che è e che sarà, fanno sapere dal Forum degli oratori italiani “stare vicino ai più piccoli. È importante che la comunità educante scommetta sulla forza e sull’entusiasmo degli adolescenti che cercano qualcosa di solido, hanno bisogno di punti di riferimento e hanno tanto da raccontare, evidenziando la necessità di offrire tempo e qualità delle relazioni per raccogliere le loro fragilità, quelle vecchie e quelle nuove e le loro speranze. Da questa estate verranno una profezia pastorale e delle indicazioni per aprire i cuori, le braccia e le parrocchie al tempo del post-pandemia che siamo chiamati a vivere”. Torna quindi un passaggio del testimone educativo. Chiudono le scuole, aprono gli oratori. È come il succedersi delle stagioni: basta prendere il calendario, e non si sbaglia. Nel giro di un giorno il testimone educativo passa dalle aule ai campanili, da maestre e professori a sacerdoti, suore e animatori. Un automatismo immutabile e perfetto.  D’accordo, non proprio ovunque e non sempre è stato così: ma la vistosa e drammatica eccezione dello scorso anno, con gli oratori costretti a far girare il motore al minimo (e in molti casi a scegliere di non accenderlo proprio come nella nostra Diocesi), che offre motivazioni nuove a un’impresa formativa e sociale capace di coinvolgere ogni anno – secondo le stime più accreditate – circa due milioni tra bambini, adolescenti e ragazzi in 8mila oratori. Usciti da un anno e mezzo di… vita a distanza, i nostri figli e nipoti tra i sette e i vent’anni stanno varcando la soglia di oratori troppo a lungo deserti con il probabile intento di farsi una scorpacciata di socialità e svago, poche priorità in testa ma ben chiare. Una schiera di giovanissimi pronti ad adeguarsi alle regole elementari che da don Bosco in qua fanno funzionare gli oratori come uno straordinario congegno umano nel quale ciascuno sa di essere importante e nessuno è di troppo.  E mai gli sarà sembrato tanto facile rispettarle, al confronto di quel che hanno accettato nei lunghi mesi del dentro-e-fuori pandemico. Ma stavolta nel ritrovarsi di questo rito che coinvolge parrocchie e famiglie ben al di là dei consueti confini ecclesiali c’è dell’altro, e i primi a intuirlo sono proprio i protagonisti dell’esperienza anche dentro l’apparente ripetersi di consuetudini sempre uguali. Proprio il continente ignoto che hanno attraversato (e noi adulti con loro) rende questa prima evasione organizzata di massa dall’inizio dell’emergenza lo spazio ideale nel quale far sedimentare pressioni e sciogliere ansie che il multiforme popolo delle cittadelle oratoriane ha variamente sofferto. C’è come un taciuto bisogno di liberarsi di queste scorie che intossicano la vita per riappropriarsi a pieno cuore di ciò che la nutre. Nel campetto dell’oratorio si insegue non solo un pallone, ma il tempo perduto, che ora torna a colmarsi di speranze e progetti, restituendo senso anche alla fatica che si è sopportata nell’attesa del meglio.  Un giorno così doveva certamente arrivare, e a quell’età la sua attesa ha assunto l’energia di una certezza incrollabile. Ora che si torna insieme per riprendere il filo della propria esistenza, nella variegata compagnia garantita dalle stratificazioni generazionali così caratteristiche degli oratori, è inevitabile che i mesi del buio e delle inquietudini assumano una consistenza tutta diversa. È condividendo tempo, giochi e riflessioni che milioni di giovani di questo Paese stanno cominciando a «non sprecare» il tempo della pandemia – per dirla col Papa –, a dargli cioè il peso e il rilievo di un’esperienza destinata a segnare la vita ma che non deve tenerla in ostaggio né può essere liquidata come un fastidio da rimuovere.  Sotto i campanili delle nostre città si può realizzare in queste settimane un’opera che è certamente educativa ma oggi anche pienamente civile: con la chiave del divertimento organizzato, della relazione finalmente aperta e diretta, della convivenza tra diversi per età e origine, si può comprendere cosa ci ha insegnato la stagione della pandemia, cos’è possibile imparare dal viaggio tra le insidie tese da un nemico indomabile, capace persino di rendere incerto ciò che davamo per acquisito. Ora tutto comincia a essere chiaro: nulla è scontato, la vita è un dono, non ogni impresa ci è possibile, è meglio affidarsi agli altri che contare solo su se stessi, tutti si è preziosi per qualcuno, c’è sempre chi ha bisogno di noi. Non è un programma da poco, ma gli oratori ci sono per imprese come questa. Antico e nuovissimo, l’oratorio ha un immutato valore religioso: qui il Vangelo dell’amicizia, dell’accoglienza, della gioia, dell’ospitalità viene vissuto e sperimentato concretamente, prima ancora che proclamato. Ma ha sempre più un sorprendente valore sociale e civile. Il mondo occidentale, Italia compresa, tende a disintegrarsi in una massa disordinata di individui che nulla sembrano avere in comune – non valori e speranze condivisi, non uno stesso futuro da perseguire insieme – tranne l’impulso a consumare. Consumare merci, materiali e immateriali.  Se nella società di consumatori tutti sono in competizione contro tutti, nella società alternativa, di cui l’oratorio è sentinella e avanguardia, si collabora e i talenti individuali sono messi al servizio del gruppo, della squadra, della compagnia, della comunità. L’oratorio è la scuola dove questo linguaggio, un tempo appannaggio innanzitutto della famiglia, continua a essere appreso e praticato. L’oratorio è scuola sempre.  Lo è quanto organizza dibattiti alti e riflessioni profonde, con l’aiuto di persone sapienti ed esperte: maestri. Ma lo è anche nelle attività ordinarie sulla cui natura tendiamo a sorvolare. Il gioco, ad esempio, è la scuola dove si apprende la necessità di regole condivise, di un bersaglio a cui mirare insieme, un progetto da perseguire, strategie e tattiche da elaborare. Collaborare, organizzarsi, diventare comunità in cui nessuno resta indietro perché tutti, a cominciare da chi corre più forte, sa voltarsi indietro e aspettare, aiutare, sorreggere, incitare. Nessuno è consumatore frustrato, perché non in grado di reggere la corsa forsennata alle merci modaiole e agli istinti da assecondare, sempre contro qualcuno o qualcosa. Ma ciascuno sa che si vince o si perde insieme. Anche questo gioco ha bisogno di maestri, ossia educatori appassionati e capaci. Proprio quello che troppo spesso manca un po’ ovunque: in famiglia, a scuola, al lavoro. 

Carlo Cammoranesi