Editoriali

Un azzardo, non un gioco

Gioco d’azzardo e crisi sociale sono due facce della stessa medaglia, rappresentano il sintomo e la conseguenza di una cultura malata che si affida alla sorte, alla voglia di arricchirsi senza fare sacrifici. Il tentare di far fortuna con il minimo degli sforzi. Se ne stanno accorgendo un po’ tutti i giornali e periodici (“Famiglia cristiana” nei giorni scorsi ha dedicato al fenomeno una copertina ad effetto), lanciando allarmi, ma palesando un’evidenza impotenza di fondo. Verso dove stiamo andando se gli italiani hanno smesso di risparmiare e hanno iniziato a giocare? Davvero siamo diventati il Paese – definito dalla stampa estera – “un casinò a cielo aperto” tra i più grandi del mondo? Nella storia della filosofia del diritto, l’alea (il rischio) ha sempre rappresentato la passività dell’individuo e il rifiuto del sacrificio quotidiano. È per questo che l’azzardo ingloba anche la dimensione della scommessa. La stessa etimologia della parola “azzardo” — che deriva dall’arabo al-zahr “dado” — esemplifica con l’immagine dello strumento della fortuna il suo significato.  Per circa un secolo, dal 1897 al 1992, le leggi hanno considerato il gioco d’azzardo un pericolo sociale per la legalità, l’ordine, il risparmio ed i conti pubblici. È stato il Governo di Francesco Crispi ad affidare al ministero dell’Interno il compito di perseguire il gioco d’azzardo perché era considerato una minaccia alla sicurezza sociale. Così fino agli inizi degli anni Novanta il gioco d’azzardo veniva considerato tutto illegale salvo per pochi casi di esercizio autorizzato mediante una riserva assoluta di legge. Quando durante la crisi economica dell’estate del 1992 e la tempesta valutaria sulla lira, svalutata del 30%, il Governo decise un prelievo fiscale aggiuntivo, il gioco pubblico d’azzardo diventa una delle voci del prelievo indiretto. La liberalizzazione nasce nel 2003 quando il gioco d’azzardo è trasformato in una grande operazione finanziaria. Nel 2003 lo Stato sceglie di introdurre “il gioco finanziario sul gioco”, nascono i derivati finanziari sul gioco, inizia il business delle concessionarie e da allora calano le entrate tributarie.  Studiosi autorevoli distinguono tre tappe evolutive della regolamentazione del gioco d’azzardo nell’ordinamento italiano: la prima definita di “contenimento” e proibizione, la seconda legata all’utilizzo del gioco d’azzardo come un aiuto al fisco, la terza fase di trasformazione dell’industria del gioco in un’operazione politico-finanziaria. Uno scivolo inesorabile, quasi uno studio a tavolino per una programmazione di pericolosa deriva dell’umano. Perché al fondo è quello che ci interessa e ne va di mezzo. Che ne sarà dell’uomo? I dati impressionano: nel 2017 gli italiani hanno speso 101,8 miliardi di euro nel gioco d’azzardo, 5 miliardi in più rispetto al 2016, mentre nel 2006 la spesa non superava i 35 miliardi. Nel Paese ci sono 366.399 slot machine, una ogni 161 cittadini. I conti sono presto fatti: dei 101,8 miliardi totali, nel 2017 ne sono stati redistribuiti 82 miliardi, 8 miliardi di euro sono entrate nelle casse dello Stato mentre circa 12 miliardi è il fatturato da capogiro dei fornitori del settore. Numerose inchieste aperte dalla magistratura segnalano che una slot su tre è illegale oppure non è collegata dal circuito del Monopolio e il giro di affari che si stima si aggira intorno ai 10 milioni di euro all’anno.  Almeno 700 mila studenti fra i 14 e i 17 anni hanno giocato d’azzardo, ma sono gli anziani che giocano abitualmente. Si calcolano circa 12mila ludopatici in cura e quasi 700 giocatori a rischio: sono i giocatori dipendenti che mantengono circa il 50% del fatturato dell’industria delle slot. I costi per lo Stato sono ingenti, si parla di circa 6 miliardi di euro per interventi ambulatoriali psicologici, ricoveri, medicine, la perdita di rendimento, il costo sociale dei divorzi, i fallimenti, le conseguenze delle violenze familiari e sociali che il gioco provoca. Quando un giocatore diventa consapevole della dipendenza deve subito chiedere aiuto. Nel 2016 solo a Fabriano, e ne abbiamo parlato in una precedente inchiesta, sono stati giocati 21 milioni di euro alle slot-machine con una spesa di 685 euro pro-capite. Riferendoci al comprensorio sono stati spesi, in tutto l’entroterra, poco più di 30 milioni di euro solo alle slot-machine. Sassoferrato la città dove si è giocato di più: 8,02 milioni di euro. Sono stati vinti 5,70 milioni di euro. Segue Cerreto d’Esi: spesi 2,65 milioni; vinti 1,85 milioni di euro. Poi c’è Genga dove sono stati spesi 1,75 milioni; pagate vincite per 1,21 milioni. Chiuse la classifica dell’entroterra Serra San Quirico: spesi 1,38 milioni; vinti 953.289 euro. Nel 2017, invece, a Fabriano si è registrato un calo di circa un milione di euro alle slot che rimane sempre il gioco che più paga. Il totale, però, sale a 33,88 milioni di euro se consideriamo tutti i giochi gestiti dallo Stato, quindi anche Gratta e Vinci e tutte le lotterie. Se la politica ha le sue responsabilità, i cittadini devono però scegliere. Vanno premiati i bar e gli esercizi commerciali che scelgono di non promuovere l’azzardo, perdendoci economicamente. Vanno ringraziati i sindaci virtuosi che cercano di limitarne l’uso. Alla società civile spetta il compito di rieducare al gioco i ragazzi nelle scuole e negli oratori, mentre ai politici che ci credono spetta di regolamentare la pubblicità dell’azzardo soprattutto nelle trasmissioni sportive, potenziare i controlli, rendere trasparenti i rapporti delle forze politiche con le potenti lobby.  Sono troppe infatti le persone deboli con vite consumate dal gioco e intrappolate nelle catene della dipendenza, nel giro dell’usura e dalle crisi familiari, a cui non c’è uscita se non cominciamo seriamente a far intravedere la luce del richiamo e del sostegno. La condanna da sola non basta.