Editoriali

Europa, ci sei?

Sarà che ormai siamo alla vigilia delle elezioni europee (ed anche per alcuni territori come il nostro, anche amministrative) ma emerge qua e là un sottile ma decisivo bisogno di tornare a fare vera politica. Spesso attingiamo al passato per intravedere quello spazio di luce dopo l’uscita dalla caverna del buio, per dirla alla Platone, e riannodando il nastro balena come una scintilla il secondo dopoguerra: lì allora si può solo scorgere che ciò che caratterizzava quel periodo di ritrovata libertà democratica e di consolidamento delle istituzioni repubblicane era soprattutto una partecipazione spontanea e positivamente interessata, con il desiderio di imparare sempre qualche cosa di nuovo, oppure costituiva la spinta a interessarsi del passato e del presente italiano in vista del futuro che doveva essere costruito. Si può anche dire, enfatizzando, che quello fu una sorta di periodo “epico” di partecipazione provocato dalla riconquistata libertà di parola e di confronto. Probabilmente un periodo irripetibile. Si aggiunga che la vasta “costellazione” dei  corpi intermedi non poteva prescindere da una discussione sulla stessa realtà politica e sociale nella quale vivevano e si muovevano. Nel contesto di questa partecipazione corale, la televisione non si sovrapponeva, in quell’epoca, al dibattito articolato dalle riunioni di partito, ma riassumeva, con molta compostezza (a volte addirittura esagerata) la posizione nazionale delle singole forze politiche. Con una sequenza impressionante, quel mondo di partecipazione democratica attiva è evaporato ed è stato sostituito, anche senza che ce ne si accorgesse,  prima da una “repubblica televisiva” molto passiva e approssimativa per tematiche, poi dalla repubblica dei cosiddetti “social network”, che ha ridotto il dibattito politico a “ battute”, a “considerazioni schematiche” se non letteralmente “inventate”. E’ svanito di colpo il lento processo della passione politica che è impastato di storia, comprensione della realtà, tattica e visione strategica. La perdita dell’ideologia (fatto in sé positivo) si è tramutata in improvvisa caduta o disinteresse di una visione. Allo stesso tempo si è perduto il raziocinio nella comprensione dell’azione politica, lo sforzo razionale di comprendere quelli che sono i grandi processi sociali complessivi di cambiamento. Occorre allora invertire la rotta. Parlare di concretezza, confrontarsi sui veri temi che colgono l’urgenza della gente, abbracciare le loro preoccupazioni, intercettare le loro perplessità. Lasciare spazio all’oggi nudo e crudo con una quotidianità che spesso non lascia scampo e per questo necessita di dialogo e di condivisione. Invece il dibattito alla vigilia delle elezioni europee, su televisioni, giornali, social network e via cantando, è stato solo caratterizzato dal “caso Siri”, dai continui litigi tra i due vice presidenti del governo o dalle schermaglie di bassa tattica elettorale, dal caso di manifestazioni e libri inopinatamente pubblicati. E mentre tutti parlano di cambiamento di questa Europa, non c’è stato un analista, un commentatore o un politico che ha spiegato, nella routine comunicativa, in che cosa si debba cambiare in questa Europa. Già, quale Europa sogniamo? E’ da costruire, certo da cambiare, ma è anche un’opportunità da cogliere, un cammino da compiere. Vogliamo palarne? Bisogna dare voce ai territori, fare squadra e attingere anche alle risorse Ue per infrastrutture, aziende e per il futuro dei giovani. Se ne è parlato nei giorni scorsi a Faenza, in un convegno nazionale dei settimanali cattolici (Fisc) in occasione della ricorrenza dei 120 anni del settimanale diocesano “Il Piccolo” e dei 100 de “Il Momento” di Forlì. L’Europa sono le persone, la comunità, volti ben definiti, non è la burocrazia, lo spread, il parlamento. Nelle istituzioni europee occorre lavorare per collegare di più il nostro spazio vitale con l’Europa: per questo sono necessari la connessione con il corridoio baltico-adriatico dal nord al sud lungo la dorsale adriatica, i porti, gli aeroporti attraverso una piattaforma logistica di viabilità ed infrastrutture che permetta connessioni veloci e nel rispetto dell’ambiente. Se nel secolo scorso abbiamo vinto la divisione fra l’est e l’ovest dell’Europa, ora dobbiamo colmare la distanza tra il nord ed il sud. Con la questione del Mediterraneo, centrale per le sfide del nostro tempo, con l’Italia protagonista di una cultura dell’incontro. L’accento sul rigore, che spesso irrita ed allontana, pur determinato da giusti criteri di sanità di bilanci, se non trova adeguati contrappesi finirà per schiacciare la voglia di Europa lasciando solo il posto ad una facile e populistica recriminazione, con il comodo alibi di imputare all’Europa stessa ogni responsabilità della propria crisi. La condivisione del progetto europeo, altrimenti di quale Europa unita parliamo (basta con le frasi fatte!), richiede anche un senso comunitario più aderente alla realtà di solidarismo e il riconoscimento di regioni come il Mediterraneo, appunto, che hanno caratteristiche particolari. Il fenomeno dell’immigrazione non può interessare esclusivamente i Paesi di quest’area e richiedere interventi solo da parte dello Stato italiano. Se si è stati capaci di mettere insieme il carbone e l’acciaio, di trasformare gli strumenti bellici in mezzi di sviluppo economico, ora si devono trasformare in risorse comuni, altre priorità, come i flussi migratori. E’ paradossale che la culla di civiltà come questo continente stia diventando una tomba dove una popolazione sempre più anziana ed egoista non sa uscire da steccati ideologici, protervie istintive e considerazioni qualunquiste. Nessuno sa più portare lo sguardo oltre. Se l’uomo non c’è, non esiste società e quindi capacità di relazione, soluzione dei problemi. L’intelligenza dell’uomo non è più educata ad aprirsi alla realtà. E l’uomo europeo, invece di affrontare virilmente le nuove sfide, si rintana e torna al proprio nascondiglio, sperando in una pace impossibile. Ma la crisi antropologica di questo tornante del tempo può essere superata solo dal risveglio della coscienza umana, ritrovando la fonte che lo alimenti di aria pura, di pensiero nuovo, di forza senza fine. Ma dov’è? E’ nel cuore stesso dell’Europa. Nelle sue radici, nella storia e nella tradizione. Non deve essere un ricordo antico o un discorso da ripetere, ma un avvenimento da aggiornare, da vivere in luoghi e comunità capaci di rendere l’uomo consapevole di sé, di fargli vibrare, ancora una volta, fosse anche l’ultima, la voglia di vivere, di vincere la paura, di incontrare ciò che esiste. Facendoselo amico. Perché o sarà l’Europa dei popoli e delle culture o non sarà. Nell’aprile del 2005, quello che era ancora Prefetto della Congregazione per la fede, poi diventato Papa, Ratzinger, ebbe a dire, ricevendo a Subiaco il Premio S. Benedetto, che “soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini. Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia, il quale in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo a risalire alla luce, a ritornare e a fondare Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo”. Montecassino? Può essere qualunque nostra città. S. Benedetto? Ognuno di noi. La prospettiva? Un’Europa di persone vive, non di fantasmi spettrali. E l’incendio di Note Dame che ha scosso il nostro orgoglio di cittadini europei deve poter far ardere anche l’anima di una comunità realmente senza confini e con un bene addosso da trasmettere.