Editoriali

I tavoli dell'inutilità

Prima una commissione ad hoc, poi gli Stati Generali per mettere a punto un programma economico che ci permetta di ripartire dopo la crisi dell’epidemia Covid. Probabilmente una successiva concertazione per valutare le opzioni emerse dagli incontri. Perché sciupare tempo prezioso? Avere una visione complessiva delle cose che per una determinata società sono importanti e dare ad esse un ordine di priorità, consiste poi nell’avere un’idea circa i mezzi per realizzare tali cose e nel sapere se tali mezzi sono o no disponibili e infine, se non lo sono, significa sapere perché ciò accade e studiare come fare allora a dotarsene. Un uomo politico, non un genio, ma uno che si dedica professionalmente alla politica, è per l’appunto uno che ha un’idea delle cose appena dette. Non è uno che si mette a chiedere ad altri che cosa deve pensare e che cosa deve fare. Se istituisce una commissione di esperti lo fa semmai perché questa gli consigli il modo tecnicamente migliore per fare una certa cosa che egli ha già deciso di fare. Non già perché la commissione stessa gli suggerisca che cosa deve fare e perché gli scriva un intero programma di governo, magari di portata decennale. L’impressione è che tutti questi tavoli servano a nascondere il vuoto di idee che ci circonda, evidenziando la spia del male maggiore del nostro sistema politico: la sua patologica difficoltà a decidere. Evitando di prendersi ogni tipo di responsabilità. In Italia chi è alla testa di qualunque ministero, o ufficio, o istituzione pubblica, ha il terrore di decidere. Quando si tratta di cose davvero cruciali, di scelte strategiche che sono destinate a scontentare gruppi o interessi importanti, ovvero destinate a scontrarsi contro il sabotaggio più o meno occulto di qualche centro di potere burocratico-amministrativo scatta una frenata lancinante. Purtroppo l’identikit del nostro politico è molto simile a colui che è preso dalla paura di esporsi, schierandosi apertamente da una parte, o compromettersi con un sì o con un no. Coltiva il sogno che la sua decisione vada bene a tutti, che metta tutti d’accordo. E quindi per arrivarci, rimandare il più possibile, radunare tutti, sentire il parere di tutti, convocare Stati Generali i più generali possibile, fare salti mortali ed escogitare formule verbali tortuose ed ambigue pur di mettere tutti d’accordo. D’accordo su decisioni che alla fine non possono essere all’altezza perché prese per l’appunto con lo scopo di soddisfare opinioni ed interessi di chiunque, suddividendo anche le risorse in mille rivoli, quindi sperperandole. Fare in modo di essere tutti d’accordo: questa è in Italia l’ideale di democrazia larghissimamente prevalente nel ceto politico che nel corso del tempo si è rafforzato sempre di più. Solo un Paese come il nostro, abituato ai tavoli di tutte le concertazioni possibili e immaginabili può concepire l’idea che alcune centinaia di persone rappresentanti delle corporazioni e dei gruppi di interesse del più vario genere chiamate a dire la loro praticamente su qualunque argomento, possa portare a stabilire un programma concreto di cose da fare. E ce ne sarebbero da fare, eccome. Ad esempio, investire in formazione. La società della conoscenza ha trasformato la produzione industriale ed il mondo dei servizi, spostando sempre di più la competizione sul versante dei saperi e delle competenze. Se un Paese non forma adeguatamente e con lungimiranza i propri giovani, nel giro di un paio di decenni, il know how produttivo ne farà le spese e ci ritroveremo con un sistema industriale impoverito e incapace di stare al passo con la concorrenza internazionale. Liberiamoci allora dall’indifferenza che ha portato ad archiviare un anno scolastico come se niente fosse, riconoscendo invece come competenza essenziale la formazione civica ed agire perché diventi una componente fondamentale di qualsiasi programma di studi. L’obiettivo di ogni percorso educativo – che si scelga una carriera nell’industria, nelle libere professioni, nella pubblica amministrazione – deve essere quello di permettere di vivere responsabilmente la complessità del nostro tempo. A questo deve tendere la formazione, prima ancora che a plasmare specialismi e eccellenze settoriali. Per questo motivo, da nessun percorso scolastico o universitario può mancare uno spazio per riflettere sul tema del senso civico. Civismo è la forma breve per indicare l’esperienza di una vita che sa affrontare responsabilmente la complessità sociale, anziché lasciarsene travolgere. Civico è l’esercizio con cui si apprende che a volte per perseguire la propria libertà e il proprio interesse è necessario sacrificarne una parte per realizzare un bene superiore. Una vera educazione civica ha per tema i valori e le soft skill della convivenza in ambienti dove dominano la diversità ed è indispensabile la faticosa ricerca dei punti di incontro. Educare al civismo significa fornire gli strumenti culturali per comprendere che non si possono rivendicare diritti senza assumersi anche doveri. Anche qui non dobbiamo usare escamotage per prendere tempo e fingere di rispondere alla domanda politica divenuta incalzante di fare qualcosa, a mostrare di essere pronti ad ascoltare la società civile che fa sempre un buon effetto, ad approfittare del gran numero di proposte sul tavolo ed adottare quelle più gradite, facendole passare per proposte tecniche. Basta con l’alibi dei tavoli (lasciamoli agli artigiani, quelli veri) per mascherare una politica senza idee. Partire da un piano di educazione al civismo sarebbe un bel gesto di responsabilità per la crescita del capitale umano del Paese. E’ da questo che dipende la futura classe dirigente. E sappiamo bene quanto ne abbiamo bisogno.