Editoriali

La risorsa dei giovani

Il “Corriere della Sera”, proprio nei giorni scorsi, ha dedicato al tema uno spazio importante definendoli giovani invisibili, cittadini di seconda classe, uno spreco di talenti. Da sussulto bisbigliato si vorrebbe che la questione diventasse non il solito chiachiericcio, ma un grido possente per dare all’emergenza quella priorità che merita. I giovani lasciano sempre più il nostro Paese che a questo punto si invecchia in modo esponenziale: nei prossimi 25 anni la popolazione compresa tra 20 e 64 anni diminuirà di 6 milioni, nonostante l’ipotesi di un afflusso netto dall’estero di 4 milioni di persone in questa classe di età. La quota degli over 65 nell’Unione europea sarà pari al 28 per cento. Da noi toccherà il 35 per cento. Vogliamo parlare dei laureati? La quota tra loro (13 per cento) è meno della metà della media europea. Ovvio, i più istruiti vanno via. Siamo subissati da classifiche e sondaggi: quella dell’Ocse sull’attrattività dei talenti vede l’Italia quart’ultima. Precede solo Grecia, Messico e Turchia per quanto riguarda i lavoratori altamente specializzati con master o dottorati. Non si può dire poi che l’occupazione giovanile sia in ripresa: attingendo alla relazione della Banca d’Italia nel 2018 il tasso di attività tra 15 e 24 anni è sceso, mentre è stabile tra i 25 ed i 54 anni. Tra i buoni propositi rimane sempre un programma serio per favorire la natalità, ma siamo nel campo delle intenzioni, appunto dei propositi e come tale resta. Il tema annoso dell’occupazione giovanile non è solo una questione di incentivi fiscali, di decontribuzioni contrattuali. E’ qualcosa di più sottile e per certi versi più preoccupante. Le politiche pubbliche sono inadeguate, ma non basta questa consolidata carenza a spiegare la costante sottovalutazione culturale dell’investimento nei giovani. E’ un atteggiamento tipico di una società anziana, obsoleta, refrattaria all’innovazione, in ritardo nel cogliere le sfide del mondo digitale, in parte ripiegata su se stessa. E’ anche il portato di un modesto ricambio generazionale, dell’inesistenza di molte aziende italiane di piani di successione, di percorsi di carriera più gratificanti e di retribuzioni per diplomati e laureati meno umilianti. Ci prendiamo cura degli anziani, ed è un meritevole aspetto del nostro capitale sociale, ricco di buone relazioni e spinte solidali. Meno dei giovani, forse perché in parte se ne sono andati. Non ci sono, dunque sono invisibili. Oltre due milioni di loro non studiano, né lavorano. Un grande spreco di vite e di talenti. In altre stagioni avrebbero manifestato nelle piazze. Ma oggi se ne vanno. Una protesta silenziosa. Silenti e fantasmi. Ma ci sono anche e non si possono ignorare. La sempre più lunga età dell’adolescenza è divenuta l’epoca del disorientamento. Le nostre realtà locali sono in grado di offrire a giovani e giovanissimi veri e propri punti di riferimento? In quale misura vi sono spazi e iniziative in grado di dare ai giovani la possibilità di sperimentare il gusto dell’impegno e dell’assunzione di responsabilità? Chi e cosa oggi ha il coraggio di proporre valori, ideali, orizzonti condivisi ai nostri ragazzi? Le famiglie spesso sono mute e impotenti, sole e in crescente difficoltà, i tradizionali luoghi di aggregazione mostrano larghi vuoti, i servizi pubblici, al di là della facciata, sono spesso inconcludenti, perfino gli ambiti parrocchiali danno segno di non riuscire sempre ad offrire in modo ampio una proposta educativa rivolta a tutti. Ma le eccezioni ci sono. E la famiglia cosa fa? E soprattutto esiste ancora? Oggi di questo si parla solo in campagna elettorale e nella cronaca nera, perché dalle famiglie provengono alcune tra le storie più dolorose e ripugnanti. Vicende di maltrattamenti, abusi nei confronti di piccoli da parte di genitori in condizioni di grave marginalità sociale, con storie di droga ed alcol, padri e madri irascibili e violenti, o acquiescenti e complici che prendono a botte i figli fino a farli morire. Si tratta sempre di bambini intorno ai due anni. E’ la fase in cui il neonato, che va sollo nutrito e pulito, diventa un essere umano che si muove, cammina, ha caldo e freddo, fa richieste continue. Alla prima dura prova di mestiere da genitore, queste persone non reggono. Ecco che i figli sono considerati problemi, impegni, condizionamenti in conflitto con la realizzazione dei propri desideri. L’ha scritto anche il Papa nell’esortazione Amoris Laetitia che c’è in giro troppo individualismo, un surplus di narcisismo. Perché una società che non fa figli progressivamente si spegne. Se ci sono, vengono marginalizzati. Li vedete tutti quei bambini tenuti al ristorante fino a tarda ora? Con quelle che si chiamano protesi educative… il tablet già nel passeggino, il video per i viaggi in treno, youtube a colazione, come se avessimo una balia elettronica per essere un po’ lasciati in pace. Ci sono ricerche che dicono che già ad otto mesi un bimbo cui vengono offerti un pupazzo ed uno schermo rivolge la sua attenzione allo schermo. Così si mettono le basi per forme patologiche di dipendenza dal video. Vogliamo mettere invece il piccolo che va a letto con la favola raccontata dai genitori? Ci vuole una ripresa, uno scatto di responsabilità. Perché capita, non di rado, di entrare in competizione con loro, quasi invidiandone la gioventù. Si formano così famiglie liquide, un magma dove le generazioni non si riconoscono più e nelle quali inevitabilmente l’autorità deperisce e svanisce, perché nessuno se la sente più di incarnarla. I genitori devono essere adulti, non adultescenti. Un genitore se fa solo il buono è un genitore finito, che ha rinunciato al suo compito di educatore. E’ vero, le regole non possono più essere imposte come accadeva in passato. Ma c’è ne è ugualmente bisogno. Magari discusse, frutto di mediazioni, costruite per quanto possibile con il consenso. Non è un controsenso. Sono gli stessi ragazzi a chiedere una guida. Altrimenti senza una leadership, neanche la ribellione è più possibile. Paradossale. Interessante si pone la frase di uno psichiatra degli anni ’60 Erik Erikson che studiò il tema dell’identità: “Se i genitori non accettano la propria morte, i figli non potranno entrare nella vita”. Oscuramente si avverte cha la loro crescita si accompagna alla nostra fine. E proviamo ad impedire entrambe. Perché noi, uomini del Duemila, nel proprio delirio di onnipotenza pretendiamo di vivere come fossimo immortali. Quindi un’emergenza che richiede prima di tutto agli adulti un serio e doloroso esame di coscienza: perché non si può offrire ai giovani quello che non si ha più. Perché per indicare ai giovani un orizzonte ricco di fascino, quell’orizzonte anche gli adulti devono averlo nel cuore, o avere forza e volontà per riscoprirlo e cercare di viverlo. Perché crescere in umanità non è questione né di servizi, né di sportelli-giovani, né di iniziative calate dall’alto. E’ l’offerta di una compagnia, di una vicinanza, che faccia sentire che è possibile spendersi per qualcosa che vale, e che è possibile non sentirsi soli, scoprendo che c’è più gioia nel donare e nel ricevere. E’ la ritrovata capacità di accoglienza, senza distinzioni, anzi con un’attenzione particolare a chi è in maggiore difficoltà. Questo deve interpellare tutti. Senza inutili giustificazioni o autodifese, ma con lo spirito di capire limiti, rimuovere chiusure e atteggiamenti che finiscono non per avvicinare ma per allontanare e irrigidire i ragazzi. Che invece hanno bisogno di luoghi e presenze più fraterne e umane, che siano alternativa concreta e gioiosa al disinteresse e alla solitudine.