Editoriali

Il tempo dell'unità

L’emergenza sanitaria, che pian piano sta regredendo, ha scatenato a cascata tante crisi diverse che hanno stravolto la vita delle persone. Non a caso si è parlato di epidemie nell’epidemia: frammenti di inquietudine, dolore e smarrimento collettivo che si sono manifestati in modo diverso e hanno colpito ogni generazione. I più giovani stanno vivendo sulla loro pelle un dramma di cui è difficile individuare i contorni e valutare l’impatto. L’assenza della scuola in presenza, la brusca interruzione delle relazioni sociali, la perdita dei punti di riferimento, il lungo periodo di isolamento hanno prodotto un aumento del disagio e delle fragilità. I centri territoriali di neuropsichiatria lanciano l’allarme, non riuscendo più a far fronte alle richieste di aiuto. I numeri della crisi sono davanti ai nostri occhi in tutta la loro brutalità a ricordarci che la politica e le istituzioni hanno il dovere morale e la responsabilità sociale di far diventare questa emergenza una priorità nazionale. I ragazzi non hanno paura del futuro perché è il loro orizzonte naturale, ma quest’anno ha interrotto la linea evolutiva che li proietta verso il domani, privandoli delle normali relazioni e di quei riti di passaggio che costituiscono l’intelaiatura della loro vita da adolescenti. Se alcuni hanno avuto la forza di reagire all’isolamento, altri ne sono stati sopraffatti; per molti il mondo si è fermato, costringendoli in un lockdown emotivo senza precedenti. Le ricerche che stanno indagando questo fenomeno, i dati che provengono dagli ospedali e le strutture territoriali, ci dicono che sono aumentati i disturbi di ansia e del sonno, l’irritabilità, lo stress, i disturbi dell’alimentazione e del linguaggio, il confinamento nelle proprie camere, fino arrivare a casi estremi di autolesionismo. E, contestualmente, sono cresciute le richieste di intervento dei servizi territoriali o della autorità a causa di un significativo incremento degli abusi fisici o psicologici. Ma, come se non bastasse, è aumentato il numero dei Neet, giovani non impegnati in percorsi di studio, formazione o lavoro che, già prima della pandemia, rappresentavano un’emergenza sociale ed educativa.  Dobbiamo mettere al centro la problematica relazionale ed emotiva, quel male dell’anima che sta letteralmente divorando la vita di tanti adolescenti. L’emergenza sanitaria ha ampliato le disuguaglianze; è aumentato il numero degli abbandoni scolastici e si è allargata la voragine tra chi avrà un’occasione e chi non ce l’avrà.  La soluzione la cerchiamo in Italia e nel mondo in 'uomini della provvidenza', in 'cambi politici' repentini, a volte anche in trasformismi spericolati, nel potere taumaturgico della tecnica (in fondo, quando eravamo primitivi, andavamo dallo stregone del villaggio), nel dissolversi e nella nascita di nuove forze politiche. Nella possibilità di poter contare su contributi a fondo perduto. Le cronache raccontano che una vincita milionaria qualche volta porta al disastro la famiglia baciata dalla fortuna. Avere troppi soldi in mano, quando non si è preparati a spenderli, può causare clamorosi sprechi e scatenare violenti conflitti. Non sia mai che questo possa accadere anche al nostro Paese che, grazie al programma Next Generation Eu, si trova ad avere risorse insperate da investire sul futuro comune. Molti hanno paragonato il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) al Piano Marshall. Ma allora le risorse venute dagli Stati Uniti furono il moltiplicatore dell’energia che attraversava il Paese, capace di muoversi all’unisono verso un obiettivo comune di rilancio e sviluppo. Fu proprio la voglia di cambiare la vera molla che scattò nel secondo Dopoguerra. In quella stagione che chiamiamo Ricostruzione. Ora è più difficile. Il problema è politico, ma anche, e prima di tutto, culturale. Attorno a noi non ci sono, come nel dopoguerra, ponti, strade, scuole da ricostruire. Proprio questa assenza di macerie rende così difficile il movimento necessario di fronte ai 200 miliardi europei. Certo, di cose da fare ce ne sono infinite. Come dimostrava l’elenco caotico di piccoli progetti che aveva riempito la prima versione del Pnrr. Ma non è questo che ci serve. La richiesta che ci viene dall’Europa è sacrosanta: il piano deve avere una struttura, una logica. E, forse si può aggiungere, un’anima. I soldi, da soli, sono diabolici. Dividono. Per questo serve una dimensione simbolica. Ricordando che simbolo – dal greco sun-ballo (l’opposto di dia-ballo, cioè il diavolo, il divisore) – indica proprio quel movimento di ricomposizione che combatte l’entropia distruttiva che da anni ammala la società italiana. Per questo, non ci può essere Pnrr o, se preferite, Recovery Plan senza una visione unitaria centrata sui temi della sostenibilità integrale: economica, ambientale, sociale, umana. E’ da qui che si sta tentando di ricostruire. Perché per realizzare questo obiettivo non bastano le parole. Servono persone credibili, scelte concrete, obiettivi coraggiosi. Serve una cornice di senso su cui ricostruire la fiducia che manca. È la dimostrazione che i soldi, da soli, non bastano. Soprattutto quando non si tratta semplicemente di spendere a debito – accontentando ogni richiesta nella prospettiva di un ritorno elettorale – ma di costruire un progetto per il futuro. Unico vero vincolo dei soldi europei. Per investire servono idee, capacità di realizzazione, conoscenza dei problemi, competenze per trovare soluzioni adeguate. Ma soprattutto serve un’aspirazione, un desiderio, un sogno. Insomma, la voglia di 'rifare il mondo' e così mobilitare le energie diffuse e dare i criteri per scegliere tra le tante cose che teoricamente si possono fare. La crisi di queste settimane ci dice che non è un problema di risorse, ma di testa e cuore. Non siamo ancora in vetta, o per cambiare metafora, fuori dal tunnel, ma di sicuro procediamo più spediti di prima. Con l’aumentare del ritmo delle vaccinazioni è crollato il numero dei malati Covid. La macchina procede grazie all’arrivo di milioni di fiale, ma anche grazie alla capacità organizzativa messa in campo. Draghi non ha criticato nessuno, non ha puntato il dito sulla precedente gestione. Nell’ora più buia ha fatto suo il motto di Churchill: non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare. Senza enfasi, senza promettere miracoli, senza recriminazioni e polemiche. Draghi non ha bisogno di cercare voti o consensi per le future urne, sa che sarà valutato solo sui fatti. Una bella differenza con chi gli sta attorno, che vive in permanente campagna elettorale.

Carlo Cammoranesi