Editoriali

Un tempo da guadagnare

“Oserò qui esporre che cosa prescriva la più grande, la più importante, la più preziosa regola di tutta l’educazione? Non già di guadagnar tempo, ma di perderne!”. Ma chi è che parla, chi si permette di fare enunciazioni così fuori luogo ed impopolari? Questa citazione di Jean-Jacques Rousseau suona come una profetica provocazione in un’epoca in cui la rapidità e l’utilitarismo hanno trasformato il tempo in denaro e le nostre vite in una folle corsa dominata dal regime della produttività. Di fronte all’accelerazione che caratterizza la società attuale, in che maniera può essere percepita una decisione che punta a riappropriarsi del tempo collocandosi, anche se per un momento, “fuori-tempo”? Non tanto e non solo spegnendo il classico cellulare, evitando di chattare, di leggere mail, ma magari osservando un tramonto in riva al mare o veder sorgere la luna piena dietro una montagna o ammirare i ghirigori di un uccello disegnati nell’aria, oppure leggere una poesia, ascoltare musica o stupirsi davanti ad un’opera d’arte, ovvero favorendo quella serie di attività improduttive che fanno pensare di sprecare inutilmente il proprio tempo. Basta riflettere sul destino di scuola ed università, in queste settimane al centro dell’attenzione a causa dell’incerta e caotica ripartenza, per cogliere fino in fondo le conseguenze di una logica basata sulle esigenze del mercato e del profitto. Da molti anni, infatti, i parametri internazionali dell’istruzione vengono sempre più condizionati dalle direttive di agenzie transnazionali: spetta agli esperti della Banca mondiale, dell’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico e dell’Organizzazione mondiale del commercio indicare criteri attraverso cui valutare l’apprendimento nelle scuole degli Stati membri. Un ambizioso sistema di regole volto a creare un canone omogeneo in grado di offrire, attraverso periodiche rilevazioni, una radiografia oggettiva ed uniforme dei vari sistemi educativi. L’efficienza dell’istruzione non si misura più sulle ‘conoscenze’ da condividere con gli studenti, ma sulle ‘competenze’ che gli allievi dovranno acquisire in vista della loro futura immissione nel mercato del lavoro. Detto in altri termini, l’obiettivo ormai non è quello di formare cittadini colti in grado di capire, criticamente, se stessi ed il mondo che li circonda, ma di addestrare professionisti capaci di adattarsi alle richieste della produzione globale. I risultati di queste tendenze stanno via via venendo allo scoperto. In Italia in una recente verifica Invalsi effettuata un po’ di tempo fa (prima del lockdown) una delle domande del test somministrato a studenti della scuola primaria conteneva questi quesiti: “Pensando al tuo futuro, quanto pensi che siano vere queste frasi? A) Raggiungerò il titolo di studio che voglio; B) Avrò sempre abbastanza soldi per vivere; C) Nella vita riuscirò a fare ciò che desiderio; D) Riuscirò a comprare le cose che voglio; E) Troverò un buon lavoro”. E’ possibile chiedere a bambini di età compresa tra i 7 ed i 10 anni se… avrò abbastanza soldi per vivere o riuscirò a comprare le cose che voglio? Sembra evidente che lo scopo principale dell’educazione debba essere quello di formare futuri consumatori interessati solo ad un’istruzione funzionale alle esigenze della produzione per garantire un accesso ad una professione in grado di assicurare lauti guadagni. Lentamente scuole ed università sforneranno eserciti di potenziali imprenditori e compratori da far impallidire l’uomo d’affari, “proprietario” di stelle, incontrato dal piccolo principe nelle sue cosmiche peregrinazioni, genialmente raccontate da Antoine de Saint-Exupery. Queste agenzie educative non possono essere aziende che vendono diplomi. Gli studenti non possono essere clienti che acquistano “passaporti” per il mondo del lavoro. Non si studia soltanto per imparare un mestiere. Non è vero che sia “utile” solo ciò che produce profitto e guadagno. E a maggior ragione i laboratori scientifici non sono distributori automatici in cui le aziende mettono soldi per selezionare ed acquisire i prodotti che desiderano. L’universo dell’educazione è uno specchio in cui si riflettono le contraddizioni della società. Così al culto della produttività si aggiunge anche quello della rapidità. La velocità è diventata sempre più espressione della potenza sociale, dell’efficienza, dell’economizzazione del tempo. Rallentare oggi significa “perdere tempo”. Eppure, a riflettere bene, la conoscenza, le relazioni umane ed il nostro rapporto con la vita hanno soprattutto bisogno di lentezza. E allora prendere tempo vuol dire guadagnarlo, impadronirsi del proprio tempo. Perdere un’ora al giorno per se stessi può abituarci a non perderci il senso della nostra vita: fermarsi e dedicare tempo alla riflessione è un’occasione per capire cosa davvero amiamo e per orientare in modo consapevole l’esistenza, i nostri passi. Perdere tempo vuol dire rendere più umano il nostro tempo e la nostra vita. Disconnettersi per rinunciare alla rapidità e all’urgenza è un imperativo per riconquistare la libertà perduta e per relazionarsi agli altri e al mondo con più equilibrio, senza furia, senza precipitarsi. Rinchiuso nel suo segreto laboratorio a Macondo il protagonista di “Cent’anni di solitudine” del celebre Marquez, fabbrica pesciolini d’oro in cambio di monete d’oro che poi vengono fuse per produrre nuovamente altri pesciolini. Col suo terribile senso pratico la madre non poteva capire quale fosse il guadagno del colonnello, che cambiava i pesciolini con monete d’oro e poi trasformava le monete in pesciolini e così via, di modo che era costretto a lavorare sempre più a mano a mano che aumentavano le vendite per soddisfare un circolo vizioso. Ciò che gli interessava non era il guadagno, ma il lavoro. Questa semplicità, motivata solo da un’autentica gioia lontana da qualsiasi aspirazione al profitto, ci aiuta a capire l’importanza di ciò che la nostra società ritiene inutile, perché non monetizzabile. Compiere atti gratuiti e disinteressati, privi di una precisa finalità, capaci di rifiutare qualsiasi logica commerciale, significa coltivare valori alternativi alla supremazia delle leggi del mercato, alla dittatura dell’urgenza. Non è il raggiungimento della meta lo scopo del viaggio, ma come ci suggerisce Costantino Kavafis, nella sua bellissima poesia “Itaca”, è l’esperienza che compiamo durante il percorso per raggiungere l’isola a renderci ricchi e migliori. E’ proprio in questo spazio di libertà, aperto all’avventura di incontri inattesi ed improbabili, che possiamo coltivare la nostra curiositas per alimentare creatività e riflessione. Si tratta di uno scarto necessario, di un ’disguido del possibile’ per dirla con Montale, in grado di aprirci alle sorprese della vita. Dedicarsi alle relazioni umane, consacrarsi agli affetti, ascoltare musica, godere le meraviglie della natura, ammirare un quadro: ecco, guadagnare tempo così per rendere l’umanità più umana.