Editoriali

La sfida dell'altro sport

Il 2026 è vicino, ma è anche lontano. Tutti abbiamo esultato per le Olimpiadi invernali che si svolgeranno in Lombardia ed in Veneto, ma lo abbiamo fatto con motivazioni diverse. Inoltre non abbiamo assistito a nessuna voce critica, anzi molti politici, che non li ritenevano una priorità, sono subito saltati sul carro a favore dei Giochi. Questo evento straordinario fa emergere anche l’altro volto dello sport, quello ordinario, in cui vediamo giocarsi anche la qualità della partita sociale di una nazione. Non il grande evento, ma i piccoli e grandi eventi sportivi quotidiani che ci permettono di conoscerci e incontrarci per creare “legami sociali”: a praticare sport sono circa 34 milioni di italiani, mentre le tv producono 22mila ore l’anno di trasmissioni sportive. Abbiamo visto ad esempio che onda lunga ha creato l’ottimo risultato delle donne del pallone nell’agone mondiale, con effetti positivi su tutto il movimento rosa, dall’eventuale professionismo allo spazio sui media. Nell’immaginario comunicativo, i modelli da imitare sono ormai i ricchi calciatori divenuti superstar, gli allenatori diventati «addestratori», i giornalisti sportivi che gravitano intorno ai grandi club, tifoserie spesso violente. Davvero vale solamente il “super-sportivo” nicciano prodotto dal suo super-uomo? Hanno ancora un senso gli “sportivi deboli” di molte società sportive amatoriali e povere, degli oratori strapieni di ragazzi nei mesi estivi, oppure del Csi (Centro sportivo italiano) con le sue 12.500 società sportive e i circa 1.200.000 tesserati che credono e vivono valori come l’amicizia, il sacrificio, la gratuità e il perdono? La forbice è ancora così divaricata e differente? La società italiana non può eludere alcune domande: è meglio educare a vincere facendo giocare i più bravi o far giocare tutti, rischiando di perdere? Ha senso una vittoria conseguita slealmente? Sono ancora valori condivisi il sacrificio, la consapevolezza del proprio limite e la gratuità? Il fair play è solo uno spot, oppure un’icona da sostenere? Siamo sempre lì, al confine tra il bisogno di primeggiare ed il desiderio di un senso più profondo al gesto sportivo. Intanto negli Usa ha fatto scalpore un dato: il 50% degli atleti intervistati dalla rivista americana Sport Illustrated ha dichiarato di essere disposto ad assumere farmaci che potrebbero rivelarsi letali dopo pochi anni, pur di vincere ad ogni costo. È nella quotidianità che si gioca la partita più importante: secondo gli esperti occorre rilanciare il senso e il significato delle esperienze attraverso la scuola, come ad esempio il Giocosport, i Giochi della Gioventù, i Giochi sportivi studenteschi eccetera, affinché la cultura educativa e formativa dell’attività ludica torni a coinvolgere gli studenti, le famiglie e i docenti. Non puntare sull’agonismo, ma sulla cultura sportiva diffusa, per dare risposte efficaci a fenomeni e patologie che già oggi appaiono estese e preoccupanti, perché il 35% dei bambini italiani è in sovrappeso e il 10-12% soffre di obesità. C’è un problema però: gli orari scolastici italiani sono quelli che prevedono meno ore di ginnastica in Europa, inoltre una scuola su 4 non ha uno spazio destinato all’attività motoria. È un dato che ha dell’incredibile. Tutti pronti, specie i politici, in clima elettorale, a gonfiare i programmi di spazi e luoghi per favorire questa scelta, non certo marginale, ma sicuramente poco da riflettori. Molti italiani tendono a scegliere sport che si praticano in solitudine. Circa otto milioni di sportivi frequentano le 6mila palestre del Paese per praticare le nuove ginnastiche, come il crossfit, l’acquagym, l’aerobica tribale, il body work, il funk, lo spimming, step e così via. Un giro d’affari che frutta circa 6,5 milioni di euro l’anno. In questi nuovi “luoghi liquidi”, crescere insieme è meno scontato di prima: la musica assordante, movimenti in piccoli spazi, l’autocontemplazione davanti agli specchi sono le spie di un cambiamento sociale. Ammalarsi di solitudine sportiva e puntare a prestazioni dis-umane significa soffocare lo spazio della solidarietà di squadra e tollerare pratiche, come il doping, che sfidano il limite e gli anni che passano. L’emergenza educativa impone a tutti — dirigenti, allenatori, tifosi, sponsor, medici, farmacisti, giornalisti, educatori e amministratori — un serio esame di coscienza sulla coerenza della propria testimonianza. I valori diventano vita attraverso le esperienze, soprattutto se sono coinvolgenti e gioiose. Non ci sono sport migliori di altri, ci sono però società sportive e allenatori migliori di altri. Non tanto le discipline, quanto i volti che li praticano, i gruppi coinvolti. Sempre una questione di persone. Il compito è sceglierli bene (società ed allenatori) e assicurarsi che i ragazzi pratichino lo sport che amano evitando che diventino un “prodotto” confezionato dal punto di vista bio e psicofisico dalla scienza farmacologica e nutrizionale. Bensì un interesse da coltivare per il proprio bene, non tenendo conto dei gradini del podio o delle medaglie. Sono più importanti quelle della vita, i gradini di un cammino felice e libero, le medaglie della lealtà e del rispetto. Si può sorridere ed esultare per un’Olimpiade ottenuta, specie se la base si presenta con queste credenziali. Ma c’è da lavorare.