Editoriali

Spariscono le culle

In tutto il mondo, la pandemia è destinata a causare una forte contrazione del numero di nuovi nati. A conferma di quanto insegna l’esperienza storica, nei momenti di un brusco aumento della precarietà, le persone rinviano (almeno temporaneamente) la scelta di avere figli. Per l’Italia – che viene da anni di declino demografico – le conseguenze rischiano di essere drammatiche. Secondo le prima stime dell’Istat, nel 2020, le nascite non hanno superato le 400mila, il valore più basso dall’unità nazionale. E la situazione potrebbe addirittura peggiorare nel 2021 visto il protrarsi della crisi. Si aggiunga la drastica riduzione delle migrazioni (-17,4%) che, al di là di tutto, hanno contribuito negli ultimi anni a contenere l’invecchiamento della popolazione italiana e il dimezzamento del numero di matrimoni (un passaggio di vita che rimane strettamente legato alla decisione di mettere al mondo un bambino) passati dai 170mila del 2019 agli 85mila nei primi 10 mesi del 2020. Insomma è da sei anni che la popolazione in Italia non fa che scendere, anno dopo anno. Qualcosa del genere non era mai accaduto in un secolo e mezzo di Staro unitario, al massimo c’era stato un biennio di calo proprio all’uscita dalla prima guerra mondiale. Il rischio molto concreto è che l’Italia si avviti in una irreversibile spirale regressiva: perdita del numero di persone attive, rallentamento economico, aumento del carico pensionistico, ulteriore riduzione della natalità. Già prima del Covid, le previsioni di lungo periodo parlavano di una popolazione ridotta a 30 milioni di persone a fine secolo. La pandemia ha costituito uno choc fortissimo. E in questa situazione il Pnrr – strumento di attuazione in Italia del Next Generation Eu: nuova generazione, appunto – è il volano, economico e simbolico, a cui tutti guardano per individuare le linee di rilancio del Paese. Per questo, sarebbe un grave errore non indicare la questione demografica e famigliare come obiettivo strategico. Per l’Italia, questa è forse l’ultima occasione per rimettersi davvero su un cammino di crescita. Perché rischiamo di essere simili a dei funamboli che con mille peripezie cercano di tirare avanti con trucchi, strategie ed equilibrismi di ogni specie. La fotografia dell’Istat è lucida, impietosa, tragica. Un gran numero di morti (aumentati a dismisura dal Covid) e pochissimi nati. L’aspettativa di vita cala di 1,5 anni, scendendo sotto gli 80 per i maschi e di un anno anche per le donne. E i nati, rispetto a dodici anni fa, sono il 30 per cento in meno. Siamo fermi su un binario mentre arriva un treno e sembra che non vogliamo spostarci. A fare le spese del crollo demografico sarà tutto il sistema paese, il suo welfare, la sanità e in generale la condizione della società. L’Italia di invecchianti non sarà capace della ripresa sognata in nome di Recovery o piani economici. Come un funambolo, appunto, il Paese ha cercato in questi anni di stare in equilibrio senza mai ricorrere a scelte autentiche di aiuto vero alla maternità, confidando sempre sulla tenuta della famiglia, mentre la si puniva economicamente e corrodeva culturalmente e socialmente. Ha sostenuto politiche contraddittorie, senza incentivare il lavoro dei giovani e proteggendo sempre le stesse fasce di lavoratori garantiti, spesso i dipendenti di uno Stato sempre più pesante e privo di energia propulsiva. Una cultura fatta di retorica sessantottina ha indebolito l’idea che generare figli sia bello oltre che necessario. In altri Paesi la musica è cambiata da tempo. Con equilibrismi però non si affrontano i problemi. La perdita di anziani e di giovani condanna la società al declino. Ci decidiamo a capire che questo è il problema numero uno, il più importante da risolvere? Oggi, per la maggioranza delle persone, avere figli è sempre meno una scelta scontata e si realizza sempre più come espressione concreta di un desiderio che deve trovare le condizioni adatte per potersi pienamente realizzare. Si tratta di una scelta che non può essere imposta per legge e nemmeno si può pensare che lo Stato paghi le coppie perché abbiamo quei figli che altrimenti non avrebbero voluto e avuto. Non si sceglie di nascere, ma si sceglie di essere genitori e di assumere tale ruolo verso un figlio desiderato, che sia naturale o adottivo. È tale scelta che consente a ogni nuova generazione di tenere aperto il futuro dopo sé. Chiedersi cosa sta alla base della decisione di avere un figlio è, quindi, una domanda che per ogni nuova generazione si pone al centro della questione di quale società si vuole costruire, con quali prospettive e quali valori di riferimento. E la terapia? Quella resta la stessa di allora ed è di comprensione immediata: più famiglia. Un "più famiglia" da declinare con azioni concrete, orientate a recuperare equità nella imposizione tributaria e nelle politiche tariffarie, a favorire la conciliazione nel mondo del lavoro, a rendere accessibili i servizi di cura e a sviluppare politiche abitative a misura di famiglia. Si tratta di attivare iniziative di "politica demografica e familiare" che, senza venir circoscritte alla sola sfera dell’emersione dalla povertà/esclusione sociale (come si è soliti pensarle) abbiano carattere universale. Agli Stati generali della natalità Papa Bergoglio ha plaudito all’assegno unico universale per i figli ed è parlato di inverno demografico perché ”la società muore se non accoglie la vita”. Mentre il premier Draghi ha sottolineato il fatto che le politiche per la famiglia per funzionare devono avere una persistenza pluridecennale. Ovvero l’Italia ha bisogno di una classe dirigente, vera, aperta, capace di ricambio e stabile nel dare una direzione nelle cose che contano. E’ una sfida che va oltre la vita del suo governo. Mettere a fuoco questo aspetto nell’auditorium romano di via della Conciliazione per gli Stati generali vorrebbe dire per una volta di non aver perso una nuova occasione.

Carlo Cammoranesi