Editoriali

Non dipendiamo da noi stessi

L’emergenza per il virus cinese viaggia. Sulle tv, su Internet e sugli aerei. Un dramma, quello di Wuhan, che mette paura al mondo. Come prima era stata la Sars o l’influenza aviaria. O ancora, tornando indietro in concomitanza con la Prima Guerra Mondiale, la “spagnola”. La letteratura universale offre esempi memorabili che raccontano i comportamenti umani di fronte al diffondersi del contagio: basti pensare a “La Peste” di Camus o a “I Promessi Sposi” di Manzoni. Con tutte le conseguenze psicologiche ed i riflessi sulle folle, ovvero dalle iniziali azioni volte a minimizzare da parte delle autorità al rischio della caccia all’untore, fino alla costruzione di leggende e favole. C’è il maglio letale di un’epidemia che colpisce alla rinfusa, incontrollabile su cui aleggia il peso insopportabile della paura. Anche oggi è così e nonostante la scienza continui a fare passi da gigante, brancoliamo nel buio, o almeno nell’incertezza, proprio perché impossibilitati a correre ai ripari con soluzioni rassicuranti. Un microscopico nemico, una cosa minuscola che tiene sotto scacco il mondo intero. Coronavirus, un agente patogeno che prende il nome da una specifica famiglia di virus. Corona, una sorta di ornamento regale che spetta a chi comanda, a chi esercita un potere. E questo dominio sembra manifestarlo in tutta la sua ampiezza. Mentre noi da perfetti sudditi siamo costretti a sentirci poco più di una nullità. Noi che ci atteggiamo a grandi e perfetti. Tutta la nostra potenza organizzativa, economica, politica trema di fronte alla sua imprevedibile velocità. Dalla Cina dicono che il morbo merita una lotta seria. E’ una sfida che non si ferma con i dazi, con le minacce nucleari o le strategie finanziarie. Dobbiamo lottarci sì seriamente, ma soprattutto interrogarci su quanto troppo spesso crediamo di essere padroni del senso della vita, solo perché ci sentiamo forti e al riparo. Il senso della vita deve convivere con il senso dell’essere a rischio, dell’essere fragili, deve essere un senso che contiene questa evidenza. Altrimenti non è un senso ragionevole, anzi sarebbe falso. Grande rivoluzione, sorprendente sconvolgimento per la mentalità dominante che invece ritiene sensata un’esistenza che domina, che è padrona di se stessa, che si autodetermina. Ma come dobbiamo essere seri nella lotta al virus (non affrontandolo nelle sedi adeguate con superficialità o leggerezza), dobbiamo allo stesso modo essere seri nell’ammettere che il senso vero della vita non sta nella nostra capacità di autodeterminazione, piuttosto nel vivere sapendo che non si dipende solo da se stessi. Queste epidemie sono lì a ricordarcelo sempre, quasi con ostinata cocciutaggine, che la nostra umanità dipende da altro, non dal flusso dei suoi antecedenti meccanici e biologici. E… quell’altro non è che l’origine di questo flusso, il punto sorgivo, il motivo saliente che ci fa alzare ogni mattina o andare a dormire ogni sera. La ragione, dicevamo all’inizio, il senso del nostro muoverci. Abbiamo purtroppo creato bombe in grado di cancellare città e popoli e ci troviamo indifesi a raccomandare l’anima per sfuggire a questo invisibile fantasma che ci terrorizza. E se anche questa minaccia uscisse dalla stessa logica? Quella di distruggere per primeggiare inutilmente, perché quello stesso virus non riconosce padroni o creatori. Non abbiamo chance di supremazia. Ma forse per la prima volta possiamo toccare con mano la nostra finitezza, una sterminata fragilità che abbassa le nostre pretese e non ci fa più dipendere da capacità e performance personali, rendendoci bisognosi di una domanda e di un aiuto. Noi che non chiedevamo mai nulla. Poi basta un’epidemia. Ma ci sono epidemie ed epidemie… quelle che sentiamo vicine, quasi a ridosso della pelle, che irrompono mediaticamente fino all’ingresso di casa e non sai come proteggerti e quelle… infinite che cadono nel dimenticatoio, non ci preoccupano, che sono ugualmente malattie che si trasmettono, che generano morti, ma sono come di serie B. Pensiamo all’ebola, che, invece, è rimasto relegato prima in Africa Occidentale e ora in Congo. E fin che ci resta non fa paura a nessuno. La malaria c’è ovunque: solo nel 2018 ha ucciso ancora oltre 400mila persone. Un dato che fa riflettere i soliti rematori controcorrente. I numeri sono per fortuna in calo progressivo, ma restano ancora terrificanti: il bilancio supera a mani basse quello delle vittime di una guerra come quella siriana in corso ormai da nove anni. Il paludismo, però, non spaventa: è la malattia dei poveri, di chi non ha neanche una zanzariera per proteggersi dalle punture che diventano mortali perché un farmaco non lo può avere. Qualcosa, però, anche su questo fronte si sta incrinando. A spaventare più di tutti, in ogni caso, è il silenzio per questi “figli di un male minore”, contrapposto al clamore di una sindrome cinese che per l’ennesima volta sembra evocare le profezie romanzesche di pandemie apocalittiche.  La morte silenziosa fa strage, quella mediaticamente proiettata fa, invece, paura. Terrorizza, evoca e induce la gente a cercare rassicurazioni. Crea fobie, bisogni di certezze e richiesta di provvedimenti per isolare il contagio. Con il passare dei giorni esso assume i connotati di una nube scura che avanza. Non vanno minimamente ignorate sia la pericolosità e sia le numerose vittime del contagio cinese, in costante crescita. Chiaramente non è facile rimettere il tappo al vaso del sensazionalismo periodicamente sturato e che genera paura. Ma un passo in avanti sarebbe certamente comprendere che, curando quelle malattie curabili, un po’ di quella paura finirebbe per essere scacciata. E un altro passo avanti potrebbe essere fatto, individuando un vaccino per debellare quel virus più insidioso generato dalle fake news e dalle bufale presenti nella rete, che favoriscono solo ingiustificato allarme e psicosi collettive.