Editoriali

Serve una politica così?

Torniamo in zona elezioni dopo cinque anni e lo facciamo con l’augurio di trovarci di fronte ad uno scenario più sereno e costruttivo. Ma sarà dura, esaminando i primi movimenti di campagna al voto: a prevalere sono ancora schermaglie e toni non troppo soft, lasciando ai margini ancora una volta le reali questioni che stanno a cuore alla gente. Che forse è stanca di assistere ai classici teatrini da scaricabarile, conditi da mancanza di responsabilità e di serietà di programmazione. Come giornale abbiamo vissuto e fatto esperienza di numerose tornate elettorali e quasi sempre siamo usciti con l’amarezza di attacchi gratuiti e di comodo contro la testata da parte del gruppo uscito perdente. E’ stato sempre così. Difficile smarcarsi da questo tipo di situazione, quando è sicuramente più agevole affrontare a brutto muso quei ceffi di giornalisti che ti ignorano, che ti mettono a fondo pagina, che non capiscono il senso di una conferenza stampa, che non valorizzano la foto inviata, che tagliano per ragioni di servizio la velina spedita. Che fatica sopportare questo peso fatto di ipocrisia e di povertà culturale! Ma confidiamo su una nuova stagione, e lo diciamo ora che siamo agli inizi dell’agone, in cui si possa finalmente dar voce alle questioni urgenti che attanagliano la nostra comunità, elaborando programmi alla portata e non fantascientifici, senza bordate trasversali o interviste al fulmicotone, ma concentrandoci a far crescere rapporti autentici, legami proficui e a sviluppare studi concreti e approfonditi per il bene del territorio. Non mettiamo sempre la politica sulla graticola, ma serviamoci di un prezioso assist fornito dal mondo dello sport di questo periodo. Per la seconda volta consecutiva, e il fatto non è marginale, un Paese come l’Italia calcistica deve salutare il campionato mondiale e ritrovarsi di nuovo in poltrona senza giocarlo. Nessuno, nemmeno il giornalista più malizioso, si permetterebbe di criticare l’operato del nostro tecnico marchigiano Roberto Mancini che ha ereditato una squadra quasi a pezzi ed ha collezionato una serie di record da vetrina, come le 37 gare di seguito senza sconfitte, in un percorso già suntuoso come 48 partite costruite con 31 vittorie e sole quattro battute d’arresto. Ma il mister non può gettarsi contro la stampa quando dopo l’eliminazione dalla coppa del mondo, ad opera della Macedonia del Nord, 67°, sì avete capito bene, 67° nel ranking internazionale, questo incidente di percorso, grave e non rimediabile, è stato definito inglorioso dai giornalisti. Giù strali per queste espressioni apocalittiche, come se il recente passato ci rendesse immuni da qualsiasi tipo di critica. Siamo campioni d’Europa, sì, ma ora? Siamo fuori dal Mondiale. Perché non ci mettiamo nell’ordine di idee di fare un piccolo passo in avanti e crescere anche nella capacità di accettare critiche e processi, se largamente meritati. Nella politica spesso riviviamo lo stesso clima. E la cosa fa ancora più rabbia perché nel momento in cui la persona dovrebbe avvicinarsi di più alla res publica, come nel tempo delle elezioni, si allontana irrimediabilmente dai suoi rappresentanti. Segno che qualcosa non funziona. E che va cambiato. La democrazia resta un grande valore dell’Europa e rappresenta ancora la forma più efficace per governare rispettando libertà e dignità. Eppure osserviamo che è in crisi il rapporto politica-popolo e siamo ormai legati alla democrazia dei sondaggi. Forse alcuni pensavano di inseguire il consenso elettorale senza avere un rapporto con la realtà; ma senza presenza sociale, culturale, vicinanza alle periferie non c’è presenza politica. I partiti populisti che vincono le elezioni in Europa hanno acquisito una grande capacità di dosare algoritmi e presenza sociale o/e social.  Occorre ricostruire le tessere del mosaico del bene comune ripartendo dalla formazione. Perché azione e pensiero sociale devono tornare a incontrarsi. Occorre tornare a ragionare politicamente fuori dai fanatismi, promuovere una stagione di unità degli italiani su quanto hanno di più caro: Costituzione, valori della democrazia, Stato di diritto, pluralismo, libertà. Aiutando tutti a riscoprire una politica non urlata, che cerca di far prevalere l’unità sul conflitto.  Nel discorso di Ratisbona del 2006, Benedetto XVI, con una felice sintesi tra Agostino e Peterson (teologo protestante convertito al cattolicesimo) ci ha consegnato un grande manifesto di teologia della politica (fondata su desacralizzazione del potere e discernimento sociale) e al tempo stesso una critica radicale alle nuove forme di teologia politica. Alla politica come dialettica amico-nemico, Peterson preferisce la mitezza come cifra di una politica umana, equilibrata, realistica, competente, razionale, in cui l’avversario è un interlocutore con cui dialogare sulla necessità del bene comune; nella consapevolezza che la salvezza del mondo non viene dalla sua trasformazione né da una politica divinizzata e innalzata ad assoluto, né da una politica ridotta a moralismo e giustizialismo.  L’attuale condizione non è un alibi per ritirarsi dalla vita pubblica, ma una spinta a ripensare il senso della loro presenza con modalità nuove. Ci aspetta un grande compito: riscoprirci lievito che agisce sulla pasta, cioè sulla realtà. La cultura di un popolo parte dalle parole con cui la racconti, dai contenuti che la abitano. Perché il sole è sole dappertutto, ma quello del deserto scalda di più, e l’idea di futuro in un Paese appena uscito dalla guerra è diversa dal dibattito sulla crescita economica in una democrazia stabile. Il ragionamento vale anche per il concetto di politica. Che può vuol dire etica della responsabilità, impegno per il bene comune, visione di insieme al servizio della comunità. O viceversa utilizzo privato del patrimonio collettivo, puro esercizio di potere, disprezzo delle regole o loro manipolazione in nome di una quantomeno curiosa per non dire infìda idea di popolo. In Italia, forse da sempre, ma particolarmente dopo Mani Pulite, per tanti "Parlamento" è diventato sinonimo di sporcizia, di corruzione, di "mangiatoia". Così gli accordi tra i partiti, su cui si fonda l’esercizio della democrazia, vengono relegati a "inciuci", i cambi di maggioranza diventano "golpe", i seggi, gli scranni parlamentari e governativi sono "poltrone". E di quelle comode, con i braccioli grandi, da cui chiamare con un cenno del capo il cameriere perché ti porti un cocktail.  Dietro c’è il rifiuto della politica vissuta come professione o, meglio vocazione, c’è soprattutto l’idea che chi la esercita non sia altro che un parassita foraggiato da una burocrazia ostile alla gente comune. Il problema sta appunto lì, nel contenuto delle parole, nell'idea che lo scranno, la "poltrona" sia per sua natura sporca e chi vi si siede corrotto e disonesto. Naturalmente non è, o almeno non è sempre e solo, così. Anche oggi esiste una "chiamata", accettata, alla politica, una vocazione al servizio del bene comune, all'esercizio di quella che Paolo VI definiva «la più alta forma di carità». E non si tratta solo di guardare all'indietro, di leggere l’attualità con i parametri di ieri, di recuperare la stagione dei De Gasperi, dei La Pira, dei Moro. Semmai occorre, questo sì, pulirsi gli occhi dalla nebbia del pregiudizio per leggere nel modo giusto la realtà. ?Allora non basterà più rifugiarsi nelle frasi fatte, nel "sono tutti uguali", nel "non cambierà mai niente". Perché persino oggi, nella stagione invasa dai social, resiste l’impegno certosino e oscuro dell’arte dell’ascolto, della volontà di mediazione, della visione di futuro. L’idea di bene comune non è morta affatto e per tanti, soprattutto giovani, vale ancora, riletta con il vocabolario moderno, la lezione di don Sturzo, che nel 1925 scriveva: «La politica è per sé un bene, il far politica è, in genere, un atto di amore per la collettività: tante volte può essere anche un dovere per il cittadino».  Proprio così. La logica del servizio vanta ancora maestri e allievi. Li vedi, partendo dal basso, nelle aule delle scuole che insegnano l’accoglienza, con le maniche arrotolate negli oratori per giocare con i bambini, nei centri d’ascolto di chi fa fatica, tra gli anziani di un ricovero, allo sportello di chi cerca lavoro. Ma anche nelle aule universitarie, nelle scuole di formazione, negli istituti di scienze religiose e sociali.  Ci sono anche quelli che stanno su una poltrona che scotta, ma senza cedere alla paura e alla vertigine del potere, con l’ambizione giusta di chi sa che la felicità più vera è quella regalata agli altri. Perché al centro non mettono se stessi, ma chi si affida a loro. È la logica seguita dai grandi di sempre. Come il Papa. Che non a caso, tra i suoi titoli ha quello, bellissimo, di servus servorum Dei, cioè "servo dei servi di Dio". I politici fanno altro, ma almeno per lo stile del dire e del fare possono ispirarsi.

Carlo Cammoranesi