Editoriali

Chi è il più bello del reame?

L’Italia ha vissuto il dramma del fascismo, ha evitato il pericolo di dittature comuniste, è sfuggita alle sirene del populismo e del sovranismo anti-comunitario – alimentate soprattutto da chi oggi lamenta preventivamente e paradossalmente il rischio (reale e da scongiurare) di non riuscire ad usare 'i soldi dell’Europa e della Bce' – sta affrontando con coraggio e determinazione la piaga della pandemia.?Ma ora si trova improvvisamente di fronte alla prova di un nuovo terribile flagello, un virus rispetto al quale nessuno di noi può dirsi del tutto immune e che tutti dobbiamo combattere innanzitutto in noi stessi: il narcisismo.?Il narcisismo nasce dalla legittima e umanissima aspirazione ad avere riconoscimento e attenzione. Diventa però patologia socialmente distruttiva quando l’io vuole dominare sulla squadra e alimenta invidie e gelosie tali da distruggere relazioni e far naufragare il lavoro d’insieme.??La nuova agorà digitale in cui tutti viviamo ci offre opportunità precedentemente mai viste per comunicare, scambiarci emozioni e conoscenze, ma è anche, se utilizzata male, un potente veicolo che alimenta le pulsioni narcisiste. Dal narcisista non ci si può aspettare coerenze su temi e comportamenti perché la coerenza sta invece nel fare qualcosa che in un dato momento può riportare su di sé l’attenzione, curando un difetto di attenzione stessa. ?Narcisismo in primis e comunicazione in seconda battuta perché la delegittimazione che colpisce la politica in Italia è anche opera dell’immagine sciocca e grottesca che spesso da di sé. Slogan imparati a memoria, chiacchiera ampollosa ed involuta, ripetitiva, concettosa: da recitare d’un fiato, seducente come l’etichetta di una confezione di surgelati, che andrà in onda nei tg della sera con altri tre quattro dello stesso tenore… effetto? Lo zero assoluto. Siamo andati a rispolverare un libro dedicato a Churchill durante il terribile biennio iniziale della seconda guerra mondiale. Winston trova il tempo di indirizzare una minuta ai membri del gabinetto intitolata Brevità. Nella quale prescrive come redigere relazioni e documenti interni e poi aggiunge: “La maggior parte delle frasi contorte sono mere chiacchiere che potrebbero essere rimpiazzate da un’unica parola. Non facciamoci scrupoli a utilizzare frasi brevi ed espressive, anche se dovessero sembrare colloquiali… l’adozione di una prosa concisa che arrivi dritta al punto contribuirebbe ad agevolare la comprensione”. Dall’altra parte, a Berlino, c’era un tizio che invece quando aveva davanti un microfono parlava per non meno di un paio d’ore. Sappiamo tutti, credo, com’è andata a finire. Ma torniamo al giorno d’oggi. Con un bell’articolo sul 'Corriere della Sera', sul Trattato delle piccole virtù di Carlo Ossola, Claudio Magris ha visto questa nostra epoca segnata da una spinta alla volgarità che investe il linguaggio quotidiano, la discussione pubblica, e ha rilanciato con il suo autorevole timbro un allarme che merita attenzione: «L’urbanità è la grande assente nel mondo in cui viviamo. La volgarità è stata completamente sdoganata, il turpiloquio è il nuovo galateo, l’insulto è la forma più diffusa del dialogo. Volgarità nelle assemblee politiche, nelle risse ai talk show televisivi, nei confronti ideologici che diventano ingiurie, non meno rozze ma meno schiette e autentiche di quelle all’osteria». La volgarità non implica solo cattivo gusto o carenza di galateo, essa ha investito e coinvolge sempre più la vita pubblica, il governo delle istituzioni, l’atmosfera complessiva che siamo indotti a respirare, sempre più inquinata. Di questo linguaggio sono parte fondamentale gli emologismi: «parole, frasi, formule che funzionano come emoticon o emoji» e quindi si diffondono come parole d’ordine pronte ad essere usate senza chiedersi perché: pensiamo ai vari vaffa, rottamazione, nomadare, prima gli italiani. Espressioni di facile effetto, che attirano like e condivisioni sui social.   Il linguista Giuseppe Antonelli la chiama “Volgare Eloquenza”, per dire un’eloquenza che si collega al volgo, cioè al popolo. Ma in realtà non di popolarità si tratta, quanto di populismo: per questo il linguaggio politico è così spesso becero. Esiste un antidoto a questo veleno insito oggi nelle parole della politica? Bisogna liberarsi dalla dittatura dei nuovi strumenti di comunicazione, a cominciare dai social, tornare a concentrarsi sul messaggio, «partendo non dalle esigenze comunicative della rete, non dai dettami del marketing politico o dai risultati dell’ultimo sondaggio, ma dall’analisi della realtà. Prima il messaggio e poi il linguaggio» Un po’ tutti avvertiamo, perciò, il bisogno di un nuovo alfabeto e di una nuova dignità per le istituzioni, per evitare che la politica assuma i toni della rissa e del malcostume e per scongiurare pericoli più gravi. Sappiamo che si tratta di un bisogno antico, ne parlavano già Aristotele e Montesquieu, san Tommaso e Machiavelli, e tanti altri che legavano le istituzioni allo spirito dei popoli e al bene collettivo. E un concetto ritorna sempre e sovrasta gli altri: l’educazione. La nostra Costituzione democratica riassume in nobile sintesi i princìpi di base della nostra civiltà, chiede ai governanti «cui sono affidate funzioni pubbliche, di adempierle con disciplina ed onore». E in questo modo, in momenti difficili e drammatici della nostra storia, s’è riusciti a riprendere la crescita morale e civile del Paese. L’attuale crisi ha, però, altre profondità, affonda le radici nella perdita di senso di una politica che sappia coniugare etica e razionalità, senza le quali lo sfilacciamento si estende, finisce per coinvolgere livelli internazionali. Alcuni grandi Paesi, anche Paesi europei preziosi per la propria storia e identità, rischiano di perdere la visione strategica necessaria per i problemi più grandi della nostra epoca, e sembrano agire come in uno scacchiere svilito, nel quale ogni popolo è lasciato al proprio destino. Non a caso, da ogni parte del mondo, si guarda a Papa Francesco e pochissime altre grandi personalità, soprattutto religiose, come a voci che sanno indicare il futuro a cui guardare e da preparare, parlano di ideali e valori, che soli possono evitare nuovi fallimenti. Questo magistero richiama la centralità dell’etica, e della ragione, come gli strumenti da sempre a base dell’evoluzione dell’umanità. Un esempio molto attuale può aiutarci a capire il rischio che corriamo, perché proprio di recente si è riammesso in Italia lo studio dell’educazione civica che per definizione riflette il costume della polis, invita tutti a seguire le regole della concordia e del bene collettivo. Ma c’è da chiedersi, che senso ha insegnare l’educazione civica se i primi diseducatori sono i governanti? Che senso ha invitare i giovani a questa formazione se poi l’educazione è espunta, quasi dileggiata, da chi dovrebbe esserne promotore. Questa riflessione si fa più amara se riferita alle nuove generazioni, le prime vittime dall’attuale crisi morale. Però, anziché farci pessimisti, essa indica l’impegno forte che dobbiamo sentire per recuperare il senso della civitas, e ci dice che il diritto ad avere istituzioni serie, oneste, vicine ai cittadini, è un diritto cui non possiamo rinunciare.