Editoriali

Meteo... e domani?

Se non fosse stato per lo sciopero salva pianeta di venerdì 15 marzo con la giovane protagonista in versione Masaniello, Greta Thunberg, probabilmente l’emergenza clima sarebbe stata derubricata tra le “varie ed eventuali” di un’ipotetica agenda istituzionale. Non lasciamoci ingannare dai numeri o dalle adunate mediatiche, perché poi basta poco ad abbandonare ogni proposito nel cassetto e a dare priorità ad altre sollecitazioni, in attesa della prossima sorpresa meteorologica, magai una bufera di neve a maggio o quel caldo tropicale che ci accompagna da anni alle vacanze estive, e che invece si potrebbe cominciare a spostare alle… pendici della primavera. Ma allora che fine ha fatto l’emergenza climatica? E’ solo un’impressione o la lotta ai cambiamenti climatici non è più all’ordine del giorno di molti note-book governativi e burocratici? “Climate change is over”, scriveva giorni fa il Wall Streeet Journal. Non nel senso che il clima abbia smesso di cambiare, o che le attività umane non abbiano più alcuna influenza sull’aumento delle temperature globali, ma nel senso che del tema a nessuno sembra ormai fregare più niente. Nei sondaggi il cambiamento climatico non è più visto come un’emergenza dalla gente. Come è successo? L’editoriale del Wall Street Journal inquadra alla perfezione il punto: “Un buon indicatore del perché il problema del cambiamento climatico non è più percepito come tale si trova all’inizio del testo dell’accordo di Parigi. Il patto ‘non vincolante’ dichiara che l’azione per il clima deve includere preoccupazione per ‘l’uguaglianza di genere, l’empowerment delle donne e l’equità intergenerazionale’, nonché l’importanza del concetto di giustizia climatica”. Non solo, prosegue l’articolo del quotidiano conservatore americano: durante un recente incontro negli Usa è stato detto che “il cambiamento climatico non può essere pienamente affrontato senza lottare contro la misoginia e l’ingiustizia sociale che hanno perpetuato il problema per decenni”. Il cambiamento climatico negli ultimi anni è stato così immerso nell’abisso delle politiche sull’identità sociale: ma questo non è che l’ultimo sussulto di una causa che ha perso da tempo la sua vitalità. Scienziati ed esperti sinceramente preoccupati per il destino del pianeta dovrebbero cominciare a prendersela per come è stata politicizzata la questione e come la comunità politica internazionale ha ristretto la gamma di risposte accettabili”. Alla lunga, e in mancanza di risposte sul breve periodo, la gente si è stufata. Quando la politica prende in mano una battaglia e la fa diventare una questione di diritti inalienabili, possiamo scommetterci: presto quella battaglia annoierà tutti. Ora però l’allarme è partito anche dal presidente della Repubblica Mattarella che proprio nei giorni scorsi, dopo un volo in elicottero in Veneto sui boschi che non ci sono più, ha confermato che «siamo sull'orlo di una crisi climatica globale, per scongiurare la quale occorrono misure concordate a livello globale». Gli sforzi compiuti nelle conferenze internazionali che si sono succedute a seguito degli evidenti mutamenti climatici – ha ricordato Mattarella – hanno sin qui «conseguito risultati significativi, ma parziali e ancora insufficienti». La sfida è ripresa, magari incanalandola su altri binari, più confacenti. Quindi, bisogna fare di più. E presto. Non sarebbe saggio limitarsi a considerare questi fatti nell’ordine della straordinarietà. Gli eventi estremi, ci riguardano, eccome. Si pensi che sul mercato europeo non ci sono soltanto gli 8 milioni e mezzo di metri cubi della tempesta che ha colpito l’Italia, ma altri 51 milioni, di eventi analoghi. Interventi parziali ed insufficienti, perché crescita e ambiente sono messi in contrapposizione, quando in vece dovrebbero essere in connessione in modo che l’uno ricavi valore dall’altro. Oggi Paesi come Cina o India sono altamente inquinanti poiché non hanno ancora raggiunto quella maturità economica che all’Occidente più sviluppato consente di concentrarsi anche sulla tutela ambientale. La priorità è sempre l’uscita dalla povertà, poi il raggiungimento di una condizione di benessere e solo successivamente la salvaguardia dell’ecosistema. Purtroppo il surriscaldamento è globale e si ferma solo se si agisce tutti insieme, perché, come per il fuorigioco nel calcio, se anche uno solo resta indietro, la strategia fallisce. Allora affinchè gli impegni assunti nelle varie conferenze internazionali non restino il libro delle buone intenzioni, bisogna abbandonare folli idee di decrescita e trovare il nuovo punto di equilibrio tra sviluppo e tutela ambientale o meglio tra profitto e natura. Come? Rendendo profittevole la sostenibilità. Cosa fattibile, come dimostrano le attività in cui ci sono stati investimenti in tecnologie pulite, in innovazione dei processi produttivi, in infrastrutture di nuova generazione. Pensate alle rinnovabili, all’auto elettrica, all’industria del riciclo e alla gestione dei rifiuti che creano energia: funzionano perché generano ricchezza. Si tratta dell’unica strategia universale e concreta in grado di salvare il pianeta. A supporto di queste considerazioni c’è il prezioso contribuito di Papa Francesco che attraverso la “Laudato sì”, enciclica uscita nel 2015, parla di ecologia come studio dell’oîkos, in greco la «casa» di tutti o la casa comune. Della responsabilità per il «bene comune» contro il rischio concreto di autoannientamento. L’incipit cita il Cantico delle Creature del santo di cui Bergoglio ha preso il nome: San Francesco è «patrono» e «testimone» di una «ecologia integrale», che ci fa riconoscere nella natura «lo splendido libro nel quale Dio ci parla» e dove ciascuna creatura ha un valore ed è un fine in sé. L’uomo è un essere «personale» ma non è il padrone della natura. E la natura non è materia bruta a nostra disposizione, gli esseri viventi non sono «meri oggetti» di sfruttamento e profitto ma “hanno un valore proprio di fronte a Dio”. Così, come riporta anche il giornalista Gian Guido Vecchi, Francesco scrive che «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale e deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della Terra quanto il grido dei poveri». Tra l’altro, scrive: «Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi». Ecco che spesso nei summit o nelle adunate da G7, 8, 9, 10, e via numerando si rischia di continuare a fissare solo il dito, senza prendere in considerazione di dare un’occhiata alla luna.