Editoriali

Credibilità e qualità

Anche i giornalisti hanno bisogno di un patrono. L’appuntamento del 24 gennaio con il calendario per ricordare S. Francesco di Sales non è una giornata rituale solo per “timbrare” il messaggio del Papa per il momento ufficiale delle Comunicazioni Sociali, ma la possibilità seria e concreta di riflettere sulla nostra professione, sulla missionarietà di una scelta a volte rischiosa ed impegnativa. Capacità di andare controcorrente, lungimiranza, modernità, sono gli elementi di cui Francesco di Sales aveva già dato prova nel primo confronto col mondo riformato. A mezzi classici come la predicazione e la disputa teologica egli ne aveva escogitato uno, davvero particolare: la pubblicazione di fogli volanti (i cosiddetti manifesti) che, pensati come mezzo di catechesi e informazione religiosa, potevano raggiungere tutti attraverso l’affissione murale o la consegna ai singoli usci delle case. A toni polemici e atteggiamenti severi Francesco preferì inoltre il metodo del dialogo e della dolcezza, seguendo la massima: «Se sbaglio, voglio farlo per troppa bontà piuttosto che per troppo rigore». Vi si attenne anche negli scritti, redatti fra l’altro con un linguaggio semplice e insieme elegante, coinvolgente e ricco d’immagini. Fu dunque una giusta valutazione quella che indusse Pio XI a proclamare Francesco di Sales, il 26 gennaio 1923, patrono di «tutti quei cattolici, che con la pubblicazione o di giornali o di altri scritti illustrano, promuovono e difendono la cristiana dottrina» (Enc. Rerum omnium). E all’indomani del Vaticano II Paolo VI volle nuovamente additare il vescovo di Ginevra come modello dei giornalisti cattolici nella sua lettera apostolica. Poi nel 1963 Giovanni XXIII poté giustamente dire agli iscritti dell’Unione cattolica della stampa italiana: «La figura di san Francesco di Sales non è di quelle che si possono contenere entro limitati orizzonti: essa ci si leva innanzi alla mente, alta e serena: più alta dei monti della sua Savoia, più serena del cielo ridente che si specchia nelle acque azzurre del piccolo lago di Annecy... In verità san Francesco di Sales fu il più amabile tra i santi, e Iddio lo mandava al mondo in un'ora di tristezza... Ed egli apparve ed è rimasto come l'incarnazione della pietà sorridente e forte, in cui si fondono la poesia ingenua di San Francesco d'Assisi e l'amore chiaroveggente di Sant'Agostino». Un identikit niente male, a fianco di giganti della Chiesa e che tutti gli anni si pone come punto di riferimento per il nostro cammino, senza tralasciare per strada il ricordo di questa presenza. Già, la memoria. E proprio quest’anno Papa Francesco la pone come tema della giornata. Il patrimonio della memoria nella comunicazione. Tante volte il Papa ha sottolineato che non c’è futuro senza radicamento nella storia vissuta. E ci ha aiutato a comprendere che la memoria non va considerata come un “corpo statico”, ma piuttosto una “realtà dinamica”. Attraverso la memoria avviene la consegna di storie, speranze, sogni ed esperienze da una generazione ad un’altra. Ancora una volta, al centro della riflessione, il Pontefice pone la persona con le sue relazioni e la sua innata capacità di comunicare. E chiede a tutti, nessuno escluso, di far fruttare questo talento: fare della comunicazione uno strumento per costruire ponti, per unire e per condividere la bellezza dell’essere fratelli in un tempo segnato da contrasti e divisioni. Colonizzato dai social network, il terreno dell’informazione è del resto minato da post-verità. Contano più le emozioni che i fatti, più le suggestioni che i pensieri, più lo storytelling che le storie, più la propaganda che le notizie. L’uomo diventa un portatore di tecnologie, parte integrante di un sistema globale dove i soggetti sono reciprocamente connessi, dove noi siamo i nostri dati, con il rischio che la personalità digitale rappresentata prevalga su quella reale. L’evoluzione tecnologica destabilizza gli assetti tradizionali della comunicazione. Resta, poi, il problema di sempre: la qualità dell’informazione che ha a che fare con la coscienza ed il senso della responsabilità che ogni comunicatore dovrebbe possedere. La strada da imboccare è, dunque, quella di considerare il giornalismo un servizio (alla verità, ai cittadini) e non un potere. Ci vuole curiosità, ma anche competenza, creatività. E onestà, un’apertura mentale per evitare quello che il Papa dice parlando della vera sindrome di Babele, cioè 'non ascoltare quello che l’altro dice e credere che io so quello che l’altro pensa e dirà'. Per non sparire è necessario, dunque, spezzare l’autoreferenzialità e, 'uscire': solo la strada può salvare un giornalismo fermo al proprio tavolino pieno di preconcetti e tesi da confermare. Il futuro della carta stampata e, in generale, dell’informazione di qualità è quindi legato al lavoro dei professionisti dell’informazione. Un concetto che dipende direttamente da un binomio: qualità e identità. I giornali continueranno ad esistere se saranno dei pozzi di acqua potabile dell’informazione. In un tempo di acque fangose e velenose diffuse su tutte le piattaforme, la gente ha bisogno di pozzi affidabili che aiutino a leggere la realtà, senza mistificare né inquinare lo sguardo che esercitiamo sull’attualità. Il futuro? Molto dipende da noi giornalisti, se continuiamo a scivolare verso una informazione aggressiva e volgare al servizio di tutti i poteri possibili, meno che al diritto fondamentale che conta: la libertà del lettore. Abbiamo una crisi di credibilità dovuta principalmente a diversi fattori: un fenomeno sociale che Bauman, il famoso sociologo, descriveva come la polverizzazione delle notizie che circonda la nostra società. Non è più chiaro il confine tra chi produce le notizie e chi le legge. Un problema, soprattutto per i giornalisti, che spesso posticipano la verifica delle notizie pur di arrivare in tempo. C’è sempre bisogno di storie attendibili, di credibilità e di un'interpretazione della realtà, soprattutto in un contesto dove i politici comunicano direttamente via social e le informazioni arrivano in ogni angolo. L’anno scorso il Papa aveva rilanciato l’idea della comunità, ovvero essere membra gli uni degli altri. La frase di San Paolo illumina di luce nuova e quanto mai necessaria la scena sociale contemporanea, ossessionata da un’idea di uguaglianza come equivalenza. L’idea più astratta che ci sia, che l’immagine del corpo aiuta a confutare nel modo più concreto ed efficace possibile: il corpo è unità di diversità. Le membra, i tessuti, gli organi... tutto è estremamente differenziato, eppure così armoniosamente legato che se solo una piccolissima parte sta male tutto il corpo ne risente. La differenza è al servizio dell’unità e coopera attivamente alla totalità: se una gamba zoppica l’altra porta il peso. Né autonomia né supremazia, ma cooperazione e sostegno reciproco. In un mondo sociale in cui se non sei all’altezza delle performance richieste diventi scarto – e tutti prima o poi lo saremo – questa immagine è preziosa per riorientare il nostro sguardo sul mondo e gli altri. Comunione nella differenza è il contrario dell’individualismo competitivo e disumano, oltre che esternamente omologato, che ci circonda. È un 'noi' plurale, dove 'diverso' non vuol dire 'nemico', ma capace di portare qualcosa di unico e irrinunciabile al bene comune. Una bella sfida per noi giornalisti, soprattutto per chi vive dentro una realtà editoriale come L’Azione. che da quasi 110 anni svolge una funzione di comunicazione che è appunto comunione, nell’ascolto dell’altro, nella ripresa di temi sentiti e nella condivisione di storie che sono carne e memoria. Come dice il Papa quest’anno, citando la frase del Libro dell’Esodo “Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria”. La vita si fa storia. Consapevolezza di un contenuto da portare, non sforzo di una nozione da catalogare.