Editoriali

Le finte cerimonie dello sport

Tutto nel fazzoletto di qualche giorno, quasi un rigurgito inevitabile dopo le farse formali e le messinscena di rito. Ecco che tifosi ragazzini urlano “negro di…” al portiere avversario, un coetaneo di origini sudamericane: succede in Liguria, su un campetto dei Giovanissimi, ma potrebbe accadere dovunque. In città o in periferia, al nord come al sud, alle gare di calcio come a quelle di basket, ai più grandi come ai più piccoli e perfino tra i genitori sulle gradinate: un Toro-Juve di Pulcini è finito ad ombrellate e spintoni. Mentre qualche giorno fa un bis amaro è stato offerto a Firenze in un match Esordienti del 2006: dopo paroloni e prese per il bavero, i genitori si sono cominciati ad aggrovigliarsi in un capannello sui gradoni della tribuna. E loro, i protagonisti tredicenni, che fino a quel momento pensavano solo a divertirsi, si sono disinteressati del pallone e si sono imbambolati a guardare fuori. In campo c’era anche chi coppe e campionati li ha vinti su prosceni importanti, come il grande Giovanni Galli, e che al figlio Nicolò scomparso troppo presto ha anche dedicato un parco giochi, e di punto in bianco di concerto con l’altro mister e l’arbitro, si è deciso di sospendere la gara. I figli non se la sentivano di correre dietro ad una palla, i genitori non ce la facevano a smettere ad usare mani e bocche per sostenere le loro vacue ragioni. Una lezione dai più piccoli con il desiderio di non volere più papà e mamma al fianco quando devono esibirsi su un prato verde nei loro spazi di divertimento. E i genitori? Anziché assistere alla prossima partita, incontreranno ora una equipe di professionisti dell’educazione. Magari una scelta edulcorata, ma tra sanzioni ipotizzate e mai applicate e prospettive da daspo per casi più gravi, c’è il mezzo del nulla. Il massimo della decisione estrema, generalmente, si concretizza in un ricorrere ad un minuto di silenzio o ad una maglietta celebrativa. Ninnoli, centesimi di coscienza pulita. Troppo poco ed inutile. Spostandoci da un’altra parte e ad un livello professionistico, stiamo parlando della serie A, durante un recente Cagliari-Fiorentina, squadre dove aveva militato il giovane Davide Astori scomparso l’anno scorso e ricordato sempre da tutti e addirittura ad ogni 13° minuto (il numero della sua maglia) allo stadio di Firenze, è stato colpito da infarto un tifoso sardo, Daniele Atzori (che profetica somiglianza di nomi!) e dalla curva toscana sono partiti cori tremendi, del tipo “devi morire”, mentre il 45enne era soccorso da sanitari ed ambulanza. Stava morendo davvero ed è poi morto poco dopo. Viviamo tempi feroci, animaleschi, gonfi di un fiele che in molti casi diventa disturbo mentale moltiplicato dai social, ci sono vittime che arrivano ad uccidersi per questo, per il dileggio e l’offesa. E lo sport purtroppo è un territorio di conquista per le orde barbare, è così da sempre, ma oggi di più. Il guaio è che non riusciamo ad andare oltre il momento dello sdegno e della riprovazione, non ci spostiamo da lì. Ci ritroviamo ogni settimana a fare gli stessi discorsi, perché all’azione sempre più indegna non segue mai la reazione. Non ci stanchiamo tuttavia di invocare pene severissime da parte delle istituzioni a tutti i livelli, Federazione, Stato, forza pubblica, magistratura. Ma diventa tutto inutile se non sentiamo sulla nostra pelle il bruciore forte per questi cori, per queste gazzarre, per questi insulti, l’anno scorso anche contro Anna Frank (ricordate le figurine?) e naturalmente contro tutti gli ebrei. E’ innegabile che l’effetto nazional popolare per il calcio amplifichi ancora di più la vera mancanza, ovvero un modello educativo. Assistiamo a scene raccapriccianti come papà avversari ultra-competitivi che sovrastano i mister di turno con urla di incitamento e sgangherati consigli tecnici. Mamme che filmano tutte le imprese dei loro “ronaldini”, caricandoli e caricandosi di aspettative fuori misura. Fino ad arrivare ad episodi di vera cronaca nera. L’odio come stile di vita, il fango da tirare addosso al prossimo perché tanto lo fanno tutti e nel branco meglio essere acquiescenti. Dietro un piccolo che insulta e scimmiotta c’è sempre un grande che lo istiga e che si fa imitare, un grande che assomiglia terribilmente a qualcuno di noi. Che dobbiamo invece rompere questo circolo vizioso e dorato, fatto di tanta ipocrisia e di buonismo, per evitare passerelle corali che scatenano emozioni ma non lasciano uno straccio di segno. Proprio in questi giorni un imprenditore sociale (ora si chiamano così) ha presentato in città il suo libro “Educare è una cosa seria”. Seria, appunto. Richiede fatica, lavoro, impegno, coscienza e responsabilità. Quello che viene trasmesso invece è altro. Una cascata di nefandezze e di cattiverie gratuite. E non serve a nulla poi scusarsi o dar spazio a lacrime di coccodrillo. Appassionante per i salotti televisivi, meno per il cuore dell’uomo.