Editoriali

Priorità giustizia

In tanti oggi chiedono giustizia, ma il nostro sistema è fatto di lungaggini processuali che si protraggono nel tempo. La durata di una sentenza definitiva è stimata in 1.600 giorni, restituendo un quadro poco edificante, contagiato da una malattia cronica. Se confrontiamo la magistratura italiana con gli standard di altri Paesi avanzati, possiamo subito notare come il divario si faccia significativo. Tutti gli operatori del settore si trovano, forse anche loro malgrado, al “capezzale del moribondo” dal nome giustizia; avvocati e magistrati che si sforzano di capire quale futuro possano attendersi i cittadini, tra vicende di ordinaria ingiustizia e lentezze burocratiche. Di questi problemi, ormai atavici, se ne era accorto anche il mondo del neorealismo qualche decennio fa, con il film “Detenuto in attesa di giudizio”, diretto da Nanni Loy, interpretato da Alberto Sordi in una delle sue rare performance drammatiche. Un Sordi che per l’occasione interpretava un geometra di origine romane, Giuseppe Di Noi, che trasferitosi in Svezia decide di far conoscere l’Italia alla propria famiglia. Un viaggio che per il povero geometra, ben presto si trasformerà in un calvario. Una vicenda surreale, che si protrae con una lunga detenzione del personaggio interpretato da Sordi, internato in una cella di isolamento in quanto considerato “latitante”. Lo stesso Di Noi apprenderà della sua totale estraneità ai fatti in ospedale. Dalla finzione alla realtà il passo è breve e drammatico e di casi di malagiustizia, purtroppo, se ne sentono ogni giorno di più. Una crisi processuale che mina la stessa credibilità dei magistrati, che oggi sono tenuti a confrontarsi con una giustizia poco efficace. Oggi i cittadini sono sempre più preoccupati da una giustizia “lumaca”, nella certezza, anzi nella incertezza, del giudizio. Senza parlare di qualche sentenza choc come quella emersa in questi giorni per violenza sessuale che ha visto tre giudici donne contro la querelante. E’ stata definita troppo mascolina per essere desiderabile, quindi lo stupro se lo è inventato. Questo il parere espresso in una sentenza dai magistrati di appello sul caso di una 22enne di origini peruviane: assolto il giovane che l'aveva violentata e quello che aveva fatto il palo. I fatti contestati risalgono al marzo 2015 e si sarebbero svolti ad Ancona. La giovane di origini peruviane frequenta una scuola serale e accetta di bere una birra insieme a un paio compagni di lezioni. Quando le birre diventano tante, si apparta con uno dei due coetanei e ha un rapporto sessuale con lui. Peccato che non ci fosse il suo consenso. In ospedale i medici certificano l'abuso. A luglio 2016 comincia il processo di primo grado che porta a una condanna per entrambi i ragazzi: cinque anni per l'esecutore materiale dello stupro e tre per il complice.??Gli imputati vanno in appello e qui nel novembre 2017 la Corte d'Appello dà loro ragione con un dispositivo che indigna sin da subito: la donna violentata viene definita "la scaltra peruviana" e vengono inseriti diversi commenti e valutazioni fisiche sulla sua scarsa avvenenza. La tesi delle tre magistrate donne dell'appello è, insomma, che all'imputato "la ragazza neppure piaceva" quindi lei è poco credibile e la sua è una messa in scena. La fiducia dei cittadini scende a livelli minimi, il buon senso rimane in soffitta e si fomenta solo rabbia ed impotenza. Ma alla fine, cosa vuol dire giudicare? In fondo, pensiamo si tratti di qualcosa che c’entra con i massimi sistemi. Va bene per la realtà, appunto. Che è una parola grossa. Meglio, larga. Talmente larga che finiamo per maneggiarla come fosse un’idea. Un’astrazione.?Così il discorso torna benissimo. Ma quando dalla “realtà” ci caliamo nei fatti - la casa, il lavoro, la politica -, impercettibilmente cambiamo strada. Quasi senza accorgercene, riduciamo giudizio e conoscenza ad un tentativo sfiancante e un po’ ossessivo di mettere in fila i dati. Di analizzarli meglio. Di scomporli e ricomporli con più ordine, come fossero pezzi di un puzzle, fino a quando l’ultimo tassello infilato al posto giusto ci permetterà di risolvere il rompicapo e dire «ho capito».??Quando proviamo a farlo, per esempio, davanti al “mal di mare” della politica italiana o al caravanserraglio di un Tribunale, ci accorgiamo che non basta “accumulare informazioni” per capire.?L’analisi non basta. La confusione resta. E il motivo, se siamo leali, è proprio che troppe volte cambiamo strada. Metodo. Infilandoci in una rincorsa a tenere conto di tutto senza tenere conto di sé. Ovvero, della profondità del nostro bisogno. Delle nostre evidenze ed esigenze originarie. Di quello che si chiama «cuore». E invece è da lì che comincia il giudizio. Dal cuore e da Chi lo risveglia di continuo. È quello il criterio, l’arma che ci consente di affrontare tutto. Se usi il cuore, ti scopri a stare di fronte alle cose in maniera diversa. La moglie. Il lavoro. La malattia. Fino alla politica. La stessa giustizia. Tutto attraversato, trapassato, dalle tue esigenze reali. La forbice si allarga e la società civile non si sente più garantita. In ogni processo è come trovarsi di fronte ad un terno al lotto, con una sentenza più dettata da effetti scenici che da rigore morale e senso della giustizia.?Ecco perché le persone amano tanto i supereroi. Sarà sicuramente per l’azione e l’avventura. Sarà perché i super poteri affascinano l’umanità da sempre. Ma è anche perché le persone possiedono un innato senso di equanimità, e quando lo vedono soddisfatto (che sia in cartoon, sul grande schermo, in un libro o un fumetto) si sentono appagati. E’ quanto si ricava da uno studio condotto dall’Università di Kyoto, riporta il Daily Mail. Il senso della giustizia, sebbene si modelli e si plasmi a durante la formazione delle persone, è un attributo innato nell’umanità. Certo, le sfumature tra ‘buoni’ e ‘cattivi’ tendono a non esistere nella fiction. Ma i bambini (e spesso anche gli adulti) tendono sempre a tifare per i ‘buoni’. Anche se a volte  personaggi più intriganti sono i loro antagonisti, ma è una sfumatura che difficilmente i bimbi percepiscono. I ricercatori giapponesi, riporta il Daily Mail, hanno voluto capire se fosse il senso della giustizia ‘innato’ ad attrarre inevitabilmente i bambini verso gli eroi, i personaggi positivi delle storie. Coloro che agiscono per il bene superiore, spassionatamente. Come fa un bimbo piccolissimo ad avere già una percezione di bene e male, di giusto o sbagliato? Eppure, in base a questo test i ricercatori hanno registrato che già a partire dai 6 mesi i bimbi sono indirizzati verso i personaggi positivi. I buoni, i giusti. Sono state fatte vedere loro delle scenette, che includevano tre personaggi. Uno era violento verso un secondo, mentre il terzo stava o a guardare in disparte, oppure se ne andava. O, terza opzione, interveniva per fermare l’ingiustizia. Non c’è stato dubbio sulla scelta del personaggio preferito dai bimbi, anche quelli con meno di 1 anno. Il personaggio che interviene a fermare il ‘cattivo’ era il loro favorito. Una scelta compiuta da bambini che ancora sono troppo piccoli per capire le relazioni umane, le dinamiche tra persone, l’etica. Eppure, in modo che viene da definire ‘innato’ sapevano di preferire l’eroe di turno. I bambini ci continuano a dare una grande lezione, ma i grandi fingono di non capirlo.