Editoriali

Responsabilità nella fragilità

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

La storia dell’umanità è segnata dal passo della debolezza. Gli eventi che hanno diviso il tempo o che ne hanno cadenzato il calendario sono curiosamente proprio quelli in cui l’umanità si è scoperta fragile. L’11 settembre 2001 ha inferto una ferita ancora aperta sia nella storia mondiale, che nel vissuto di migliaia di famiglie che hanno dovuto soccombere alla violenza inaudita del terrorismo internazionale che trovava una delle sue radici nel fanatismo religioso. La Shoah, nel cuore nero del Novecento, ha cambiato gli eventi a seguire perché mai così tanto orrore fu generato dal degrado umano. Le pestilenze sono state eccidi di massa che hanno colpito il genere umano senza rispetto per nessuno e senza preferenza di genere o classe sociale. Come dimenticarle? Impariamo ad esistere dalle nostre miserie. Possiamo rinascere solo dalle nostre macerie. La stessa cronologia, con la numerazione dei secoli, è stata divisa in un prima e un dopo da un bimbo, icona della fragilità esistenziale dell’essere umano. Il Cristo atteso dai popoli e da secoli come il potente, il rivoluzionario, il Re delle genti, non fu altro che un vagito come tanti. Tutto lo scorrere degli eventi è scandito dalla piccolezza e dalla precarietà dell’uomo. Il genere umano fa più storia con la debolezza che con la forza. Eppure, sembrerebbe l’opposto. L’umanità sembra rincorrere un’autodeterminazione senza confini che mai soddisfa né mai rassicura abbastanza, cercando primati sempre nuovi. L’umanità si scopre repellente alla fragilità ed espelle gli indesiderabili. Troppi figli non programmati o "difettosi" vengono abortiti, tanti anziani scomodi dimenticati nelle cliniche. E ora anche i malati terminali vengono indotti e assistiti al suicidio in nome di una barbarica difesa della libertà di autodeterminarsi, fino a sopprimere il bene primario dell’esistenza umana: la vita. Eppure, dell’uomo forte non resterà nessuna traccia. Neanche un segno rimarrà della prepotenza dell’uomo. Non fa storia il potere che schiaccia miseramente la voce dei più indifesi. Il passo dell’umanità è segnato dalla fragilità della persona, non dalla patetica ostentazione dei suoi bicipiti. Anche oggi, nel tempo del Covid-19 in cui ancora una volta l’umanità si riscopre vulnerabile e rispolvera la grammatica della debolezza e della cura, della prossimità, dell’appartenenza e della fugacità della vita, si invoca la potenza divina che con un colpo di mano possa cavarci da questa trappola virale. Vorremmo un dio potente che risolvesse questa immane tragedia con uno schiocco di dita. Un deus ex machina che cambiasse l’attuale scena del mondo. Vorremmo uscire da questo incubo e subito dimenticarlo e annaspiamo alla ricerca di qualcuno che sappia giocare con i poteri forti, di chi abbia così tanto peso da essere influente sul corso degli eventi. Eppure, nel tempo della fragilità, un Dio debole ci soccorre. Verrebbe da imprecare: "A cosa giova un Dio debole? Cosa farne di un Dio bambino? Aspettavamo il forte, il migliore, l’Onnipotente... non Tu". Ma l’umanità fa la storia con il passo dei piccoli e dei fragili. Il Dio bambino sceglie la nostra stessa pelle, veste la nostra medesima miseria.  Non ci toglie dalla storia, neanche quando è scomoda o terribile, ma la vive con noi. Il Dio debole non ci risolve la tragedia che ci ha scaraventato nel lutto e nel pianto, ma piange con noi, veste il nostro stesso lutto, porta addosso il nostro stesso dolore. Dio si fa presente per la via della debolezza. È dentro la nostra storia, dentro le nostre stesse viscere perché, come noi, nato da donna e dal seno di Dio. Il Dio piccolo non pretende i nostri meriti, ma ama i nostri limiti. Non ci poteva capitare soccorso migliore, del Dio peggiore con i peggiori, invisibile con gli invisibili. Dio strappa i cieli e fa incursione nella storia con un vagito e ancora una volta la debolezza scandisce il nostro tempo. È bastato quindi un piccolissimo virus a interrompere l’incantesimo nascosto dietro la pretesa tecnocratica: la retorica del progresso tecnologico che ci rende più liberi e più autosufficienti si è disintegrata di fronte all’evidenza della vita reale in tutto il suo dramma. Abbiamo a lungo tenuto lontani i nostri figli dalla possibilità della debolezza, della fragilità e della morte, trasmettendo loro piuttosto la sicurezza dell’uomo che non deve chiedere mai, la forza di un ottimismo centrato sull’«andrà tutto bene» come parola d’ordine. Quell’andrà tutto bene, che abbiamo sentito come un mantra anche a ridosso delle elezioni del presidente della Repubblica. Quel senso di impotenza, di fragilità, di indecisione, di mancanza di sguardo d’insieme ci hanno lasciato attoniti, mentre dall’emiciclo giungevano immagini che nulla avevano a che fare con la vera politica.?La politica è fatta di visione strategica e abilità tattica, non di propaganda che ruba consenso giocando sulle paure. E alla fine i politici veri restano e sono al centro della scena, perché sanno governare le tempeste. Gli altri – lo abbiamo visto in questi giorni – bruciano nomi come fiammiferi nella tempesta e finiscono al buio, stanchi e infreddoliti anche se pensano di avere imbroccato la rotta giusta. È di ottimi navigatori che abbiamo bisogno, che abbiano la croce del Sud come guida, non di avventurosi marinai di acqua dolce. Perché siamo al secondo grande fallimento dei partiti in questa legislatura, non facciamo finta di dimenticarlo. Incapaci di tenere in piedi un governo e di eleggere un nuovo presidente della Repubblica, soprattutto incapaci, al di là di slogan ed illusioni, di guidare l’Italia in emergenza e di indicare una prospettiva ai cittadini. Forse le macerie di questi giorni possono essere un punto di partenza per una riflessione radicale. Per cambiare finalmente se stessi: in termini di leadership, programmi, alleanze, serietà e responsabilità negli atteggiamenti e nella comunicazione. La rielezione di un presidente è certamente un’anomalia, ma quella di Mattarella è una buona notizia perché di tutto aveva bisogno l’Italia, fuorché di instabilità. Sabato scorso aveva detto “se serve ci sono”. Sì, serve. Ma con il debito pubblico al 160 per cento, l’impennata dei costi dell’energia sulle imprese, le famiglie angosciate per le bollette carissime, i picchi spropositati dei morti per Covid ed i venti di guerra in Ucraina c’era davvero bisogno di caricare l’Italia di altra ansia dovuta ad uno scontro così scomposto agli occhi dell’Europa? Mah… 

Carlo Cammoranesi