Editoriali

Quel briciolo di felicità...

Non so se tutti se ne sono resi conto, ma qualche giorno fa c’è stata la giornata mondiale della felicità. A qualcuno sarà sfuggita. Ani più di qualcuno. Non si può fargliene una colpa: le giornate mondiali sono ormai più numerose dei giorni del calendario, e star dietro a tutte è entrare in un labirinto con possibilità di uscita vicino allo zero. Talvolta, ci ne sono più d’una nello stesso giorno. Prendete il 2 ottobre: l’umanità è fortemente sollecitata a sensibilizzarsi su: sorriso; angeli custodi; nonni; azioni non violente. E’ stata pubblicizzata quella dei nonni, ma a fianco ce ne sono altre. Il 10 dicembre tocca sensibilizzarsi sui diritti umani, ma anche sui diritti degli animali. Anche il 21 marzo non scherza: una giornata per abolire il razzismo, un’altra per difendere le foreste, la terza per valorizzare la poesia. Roba da fare i turni. Spulciando l’elenco delle 400 giornate mondiali da celebrare, si trovano grandi temi su cui mobilitarsi, come ad esempio la donna, la giustizia, l’acqua, la lotta all’aids; ma anche temi su cui non ci verrebbe in mente di scaldarci tanto se non fosse per la solerzia dei cervelli filantropici dell’Onu. Per esempio, giornate mondiali per celebrare Darwin, la radio, la lingua madre, l’udito, il sonno, la felicità, la risata (1 maggio, in coabitazione con la festa dei lavoratori), il vento, il bacio, i mancini, l’orango, la posta, la gentilezza, il diabete, l’uomo (sic!), il bambino, la tv. La moderazione. Breve tregua, perché arriva il Natale, ma quella lì è un’altra storia. Fortunatamente! Se la realtà è misurabile, lo deve essere anche la felicità dei popoli. Basta preparare un cocktail di indicatori delle varie componenti della felicità: reddito, sicurezza, ambiente, welfare, ecc. Per la rappresentante permanente italiana felicità è “il prodotto della combinazione dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030”. Il Rapporto 2019 scopre che i più felici del mondo sono i finlandesi, seguiti a ruota dai paesi dell’Europa nord-occidentale. L’Italia è un po’ più contenta dell’anno scorso, avanza dalla posizione 47 alla 36, a ruota dei salvadoregni. Sudan, Botswana, Siria, Afghanistan stanno nelle zone basse della graduatoria, insieme al Venezuela.   Ma che cos’è la felicità? No, perché il tasso di suicidi in Finlandia è quasi il triplo che in Italia: 16 ogni 100mila abitanti contro 6. E poi, che strano: i paesi occidentali davanti a noi in classifica – scandinavi, olandesi, inglesi, tedeschi – hanno tutti un tasso di suicidi 11 e 12 su 100mila, e francesi addirittura 14,7. Un rompicapo. Dunque, che cos’è la felicità e che cosa la costruisce? Nessun report ci offre dati convincenti e nessuna giornata mondiale ci dà una soluzione. Non ce la fornisce nemmeno Google: i risultati della ricerca danno al primo posto la canzone di Al Bano e Romina, ma come credere che felicità sia tenersi per mano e andare lontano, o un bicchiere di vino con un panino, e via gorgheggiando? Un passo avanti ci può aiutare a compierlo il Diario di Etty Hillesum, la scrittrice olandese, ebrea, uccisa ad Auschwitz. Nel campo di concentramento, ha scritto queste parole: “Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non veda il dominio della morte, sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l’ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così”. “Se la felicità non esiste, cos’è dunque la vita?”, si chiedeva Leopardi in una lettera ad un amico scritta nel 1823. E don Luigi Giussani, appassionato delle liriche del poeta del Colle, commentò così, parlando a un gruppo di studenti alla fine degli anni ‘90: “La dignità dell’io vero è la parola felicità”. Infatti “chi non ha mai provato a dire ‘io’ con un po’ di questa sincerità e di questa consistenza è uno per cui tutte le cose diventano niente […]. Questa è la grandezza dell’uomo: la parola felicità può essere pronunciata, può essere sentita, presentita, desiderata, vissuta, solo dall’io”. L’io. La persona. Il cuore. Parole chiave, di una concretezza estrema. Invece l’atto istitutivo della Giornata della felicità parla di umanità: “consapevole di come la ricerca della felicità sia uno scopo fondamentale dell’umanità” eccetera. La differenza è quella tra concreto e astratto: una differenza abissale. Allora la felicità va issata su un pennone di pura idealità. Altro che esperienza viva, carnale. Poi cerchiamo la felicità, per soddisfare il desiderio di infinito. Ma – avverte – come posso io, che sono finito, rispondervi? C’è un solo luogo dove la parola felicità è presa sul serio più che in noi stessi: è l’autentica religiosità, o – che è lo stesso – il cuore. Questo fenomeno della natura sembra impalpabile, più piccolo del più piccolo seme; eppure questo seme sarà dominatore del mondo. Il cuore è questo seme; esso è costituito da una sola cosa, da una sola carne, da una sola materia: esigenza di felicità. Benessere, sicurezza, una certa tranquillità di vita e di lavoro sono bisogni comuni che hanno a che fare con la polis ed è giusto che i governi se ne interessino. Felicità però è un mio desiderio che ha a che fare con l’infinito, e nessuna politica se ne deve impicciare. Non va ad intaccare i confini della privacy, ma gli standard spesso indicati e monitorati dalle istituzioni non sono quelli più credibili. Capite allora come in Scandinavia si parli, classifica alla mano, al tempo stesso di terra della felicità estrema e del suicidio ad oltranza? Vogliamo pensare allora ad altri riferimenti più consoni e più necessari alla persona? Come il cuore, appunto.