Editoriali

Per un like in più...

Oggi comunichiamo di continuo, eppure è raro che diciamo esattamente quello che ci sentiremmo di dire. Vogliamo sempre fare la battuta più brillante su twitter, corriamo ad esprimere la nostra opinione sul fatto del giorno, magari senza esserci informati opportunamente, ma abbiamo consapevolezza di ciò che stiamo sacrificando sull’altare di questa gara? Ecco che le nostre parole vengono distorte, perdono di sincerità, spontaneità, ma soprattutto di connessione con il reale. Questo sabato, il 9 giugno a Macerata partirà la 40° edizione del Pellegrinaggio notturno a piedi fino alla Santa Casa di Loreto. Un evento che coinvolge sempre più giovani in cerca di un significato più consistente per la vita, quasi centomila persone. Ci sarebbero tutti gli elementi per meritare uno spazio importante sui media. Ma anche qui vige la legge dei like, dei consensi sui social e non sempre si finisce per mettere in vetrina quello che ne avrebbe tutti i crismi, anzi spesso sono in evidenza pseudo notizie enfatizzate e veicolate da una pletora di sostenitori del virtuale. E ciò che conta va in cantina, nascosto tra le brevi di una pagina. Fanno più effetto lo sballo, il proibito, la trasgressione, rilanciate sul web da chi le ha vissute e da chi le desidera ed i primi a cadere nella rete della tentazione sono i giornalisti che cercano il consenso per quello che scrivono, confrontandosi sul solo scenario internettiano. Accade quindi che una storia meravigliosa di giovani in cammino tutta una notte per mettere a tema la propria vita, per pregare per un amico e per salvare un rapporto venga rubricata come qualcosa al di fuori dell’interesse generale, un impegno con l’avventura religiosa che non ha pertinenza con il reale. Che c’entra? E noi ne usciamo irrimediabilmente sconfitti. Le bolle in cui ci immergono i social o i mezzi digitali funzionano in modo autoreferenziale e al contempo pericoloso: ci piacciono perché ci permettono di scegliere con chi relazionarci e scegliamo di farlo sempre con coloro che corrispondono al nostro modo di vedere, leggiamo solo cose che ci compiacciono, ma che ci tagliano anche fuori da una parte di società che la pensa diversamente da noi. Il politicamente corretto, la paura di offendere, un’isteria legata a quel che va detto e cosa non detto, limitano la libertà di espressione in un’epoca in cui essa è virtualmente al suo massimo. D’altronde è più comodo così: “Per farsi dei nemici non è necessario dichiarare guerra, basta dire quello che si pensa”, diceva Martin Luther King. Se persone come lui si sono sacrificate in nome della libertà forse vuol dire che questi principi non riguardano solo l’opportunità personale, ma sono invece veri e propri valori culturali. Al contrario stiamo perdendo l’attaccamento alla realtà fattuale delle cose e anche l’inclinazione ad accettare la verità, anche quando è scomoda. Mentre è sempre più facile cadere nelle tagliole della propaganda o della disinformazione, sarebbe opportuno correre dei rischi. Non esprimerci solo in modo da ottenere qualche “like” in più o con mille cautele per non disturbare poteri forti o prepotenti di turno. In un’intervista lo scrittore Emmanuel Schmitt scriveva che siamo in “un’epoca vittimistica, in cui non facciamo altro che definirci vittime di qualcosa o qualcuno”. Essere meno vittime forse passa proprio dalla forza che mettiamo nell’intonare la nostra voce su un accordo autonomo rispetto alla babele collettiva. In questo scenario di post-verità un’idea è forte quando ha voce indipendente e libera. Eppure quello che ci preoccupa è la paura di non esserci, di trovarsi fuori dal gioco. Come se nessuno si accorge che esistiamo ed allora ecco l’impulso a pubblicare sui social contenuti personali con la speranza che qualcuno apprezzi le nostre abitudini, a commentare senza alcuna conoscenza questioni dalla complessità palese, a comunicare a tutti i costi cosa ci passa per la testa. La politica come la vita, la solitudine come la gioia, ogni cosa è costretta a passare sotto il filtro egomaniaco della social-dipendenza. Spaventa verificare come questa ‘dittatura’ travestita da ‘democrazia digitale’ abbia trasformato in teneri schiavi anche persone navigate, gente che ha studiato, viaggiato e sperimentato l’alto ed il basso dell’esistenza, perfino figure autorevoli che si stanno orgogliosamente trasformando in figurine patetiche alla disperata ricerca di consenso virtuale. E’ giusto o no tacere ancora sulle pericolose conseguenze che questa assuefazione moderna sta imponendo ai nostri amici, colleghi, famiglie? Basterebbe forse tornare a volgere la fotocamera della nostra vita verso ciò che c’è fuori: manifestare il desiderio di ascoltare e non soltanto di essere ascoltati. Di ammirare e non soltanto di essere ammirati. Perché così, rompendo l’incantesimo, siamo capaci di guardare realmente la bellezza anche di un pellegrinaggio di centomila persone che sfidano la notte senza necessità di ritagliarsi uno spazio tutto proprio fatto di selfie e di like. Il bello esiste e lo possiamo documentare anche senza sbattere il nostro ego in copertina.