Editoriali

La speranza del talento

Paura, insicurezza, aggressività, grida. Nient’altro all’orizzonte? Vivere sembra essere diventato un ‘mestiere’ sempre più difficile e l’inquietudine incombe di più alla ripresa dei giochi, dopo la parentesi estiva, come se il riposo fosse una sorta di anestetico o magari uno spazio di fuga. Lo scrittore francese de Rougemont dice che “il dramma è serio e la nostra vita non è una farsa, per la semplice ragione che è unica, e non si può cambiare la propria parte: si può soltanto rifiutarla”. A guardar bene ci si accorge che dentro ognuno di noi c’è un bisogno sconfinato di non arrendersi, di non rifiutare la propria parte, di dare il proprio contributo a quella che in maniera solenne chiamiamo storia. Dobbiamo trovare qualcosa a cui ancorare questo bisogno, qualcosa che ci permetta di partire, di giocarci da uomini la partita della vita. Secoli di razionalismo ci avevano indotto a ritenere che l’ancoraggio più solido fosse l’uso della ragione come misura del reale. Ci avevano illuso che il possesso del mondo attraverso la scienza e la tecnica ci avrebbero dato la felicità. Vedere, toccare, sentire ci erano sembrate facoltà inadeguate alla conoscenza del reale e alla sfida del vivere. Lo smarrimento di oggi può forse riaccendere l’umiltà di tornare all’esperienza, accettare la fatica di guardare la realtà imparando da essa e liberando la ragione dall’angustia di ciò che già sappiamo. Perché a forza di delusioni noi italiani abbiamo quasi l’aria di essere diventati tutti più scettici e disillusi, se non addirittura cinici, il che per un popolo tradizionalmente ottimista, fiducioso che “in qualche modo andrò tutto bene”, configurerebbe un’autentica mutazione antropologica. Le convulsioni della politica, la fine di un governo con tutti i retro-pensieri che tornano molesti ed inesorabili come l’anticiclone africano, con l’evidente incapacità di offrire una prospettiva di ampio respiro ad un Paese a corto di fiato, sembrano condannarci a non poter scorgere cosa ci attende domani se non un altro valzer di polemiche, il consueto spettacolo di un‘arroventata ostilità politica che ha come esito l’avvitarsi di crisi dai destini nebulosi. Un circuito vizioso, un labirinto di specchi, una matrioska russa. Scegliamo a piacimento. Ma è arduo chiedere ad una comunità di conservare la forza di affidarsi e di sperare quando l’incertezza è compagna abituale e sulla scena pubblica il futuro è coniugato con interessi di fazione, consensi da mietere o recuperare, promesse delle quali nessuno onestamente può garantirci il successo. Anche per sciogliere il nodo delle elezioni, sì, no, prima possibile, più tardi, viene sempre sventolato il vessillo del tornaconto, anziché il nobile proposito di un bene comune da abbracciare davvero e non da spolverare ad uso e consumo di tutti per amor della retorica e della demagogia. Eppure dobbiamo venirne fuori, con caparbietà, con responsabilità, con coraggio. Il Cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, nei giorni scorsi partecipando al Meeting di Rimini ha citato la parola “talenti” e “che una società vecchia e immobile – vecchia non solo per l’età quanto per lo spirito”, affetta “da uno spirito di corporazione e conservazione che fa sopravvivere consorterie e oligarchie, amicizie e spirito di clan”, tende a lasciare sotterrati questi talenti, decretandone di fatto l’inutilità. Il cardinale parlava di giovani, di uomini e donne vivaci e forti, ricchi di creatività: frutti, qualità che non possono restare in un limbo indefinito. Sono come la metafora di un Paese che ha l’accorato bisogno di una speranza affidabile in cui credere per tornare a costruire un domani senza sentirsi indotto fino a nuovo ordine al piccolo cabotaggio del proprio interesse, gelosamente difeso dalle insidie del disincanto, del rifiuto dell’altro e perfino dei nostri figli e nipoti, i ricchi di futuro che riduciamo a poveri di oggi e domani. E’ un clima tossico di non senso esistenziale nel quale crescono i giovani, i primi tra tutti a non intravedere tra le maglie sottili del futuro uno sguardo di bene e di tenerezza. Pensiamo alla dialettica socio-politica: ebbene sta diventando una rarità assoluta quel che viene denominato “eloquio misurato”. Da una parte è stato appesantito di valenze teatrali, aggressive, volgari. Ma ancora più pericolosa è la scomparsa della misura nell’esprimersi: nessuno si sente bravo se non è rapido, scioccante, quasi che voglia terminare il messaggio nel più breve tempo possibile, senza preoccuparsi del ritmo e della misura necessari. Si potrà giustificare la cosa avvertendo che in una comunicazione dominata dai social, l’importante per chi comunica non è ragionare e meno ancora convincere, ma è solo dichiarare con la frase di maggior impatto possibile. Ma il risultato è che il misurato eloquio non ha più spazio. Mentre c’è un’autostrada per la trivialità da bar e per le risse da stadio. E i giovani cosa vedono? Come vengono educati? E’ secondario preoccuparci di andare al voto prima o dopo l’autunno, prima o dopo i solstizi: la giostra girerebbe fatalmente allo stesso modo. “E’ triste – sono ancora parole di Bassetti – quel paese che non sa dare speranza ai propri figli, che non sa progettare il futuro”. La centralità del tema dell’educazione, della ricchezza di un capitale umano da… spendere tocca anche inevitabilmente anche l’ambito economico. Ha fatto scalpore la dichiarazione dell’amministrazione delegato di Fincantieri Giuseppe Bono che ha detto che le imprese non trovano i giovani di cui avrebbero bisogno perché il nostro sistema scolastico non li forma. I dati gli danno ragione: il 37 per cento delle imprese italiane ha difficoltò nel trovare lavoratori con le giuste competenze. Per una volta mettiamo a tema queste urgenze per evitare di sprofondare come il Titanic, che nonostante tutto continuava proporre musica ad oltranza fino alla fine. Da noi niente sinfonie musicali, ma battibecchi e lingue pepate senza sosta, un risiko confuso fatti di annunci pubblici ad effetto, trattative carsiche, un gioco di tatticismi esasperati. La sostanza è uguale in tutto e per tutto. Inganniamo il tempo, inconsapevoli del pericolo mortale.