Editoriali

Un...calcio allo sport

Abbiamo atteso una settimana per affrontare la questione che ha investito il mondo del calcio, lasciando sfogare penne ed ugole in un ginepraio di considerazioni e di prospettive. Con la politica in prima linea, e non poteva essere altrimenti, visto l’interesse nazionale per il dio pallone, e con il Covid relegato per un po’ in retrovia, nei notiziari e nei tg serali. Nel calcio, si sa, circolano da sempre un sacco di soldi e per decenni quella montagna di denaro è finita in larga parte nelle tasche dei calciatori, senza che le società ci guadagnassero nulla. Con un’efficace metafora, la società di consulenza A.T. Kearney qualche anno fa paragonava i club a vascelli incaricati solo di trasportare, gratis quando non in perdita, i soldi del calcio ai giocatori. Per certi versi è normale, perché le classiche regole dell’amministrazione d’impresa non si applicano allo sport. Se per un’azienda tradizionale il principale obiettivo è la redditività, per una società di calcio prima vengono i risultati sportivi, poi il resto. Al punto che per molto tempo i club non si sono nemmeno resi conto del fatto che nelle loro casse restasse soltanto una fetta irrisoria dell’enorme giro d’affari dello sport più popolare del mondo. Con un comunicato diffuso nella notte di domenica 18 aprile era nata la SuperLega, 12 grandi club calcistici europei decisi a fare da soli un proprio torneo. Se ne parlava già da tempo, ma dalle parole si era passati ai fatti. Non c’è da esprimere un giudizio morale, ma da riflettere. Tutto si è sgonfiato nel giro di 48 ore, ma è rimasta la sensazione che niente sarà come prima.??Forse può apparire un po’ 'cinico', eppure non si può negare a un’azienda privata il diritto e la possibilità di cercare sbocchi commerciali, alla ricerca di nuovi mercati con conseguenti profitti che sgorgano da prodotti più appetibili e affascinanti.??D’altra parte, a essere onesti, partite di 'cartello' come quelle che potrebbero essere giocate nella superLega, i ragazzi le hanno sempre giocate. Certo alla Playstation, ma pur sempre sfide tra le più grandi squadre d’Europa. Solleticare la fantasia, regalare un sogno, far percepire di non poterne fare a meno è l’anima dei più grandi venditori del mondo. È la logica economica. Proprio ora che sembra intravedersi una luce in fondo al tunnel dopo mesi di pandemia e il Paese comincia a prepararsi a una prudente ripresa, abbiamo tuttavia bisogno di etica e di estetica per rendere il mondo più giusto e più bello. È un invito per tutti, anche per il mondo del pallone, ad assumersi le proprie responsabilità.?«Il campione diventa, per forza di cose un modello d’ispirazione per altri, una sorta di musa ispiratrice, un punto di riferimento», ha detto Papa Francesco in un’intervista alla 'Gazzetta dello Sport'. Che modello ispira la scelta di una frattura proprio ora che il vento e la burrasca sembrano placarsi e quella barca dove ci eravamo stretti insieme per sentirci più forti sembra diventare troppo piccola per starci tutti ed è meglio allontanare i passeggeri più deboli? Già i 'deboli' dello sport sono stati allontanati da troppo tempo. Migliaia di ragazzi costretti a lasciar impolverare maglie e scarpini e attrezzature perché campi e palestre e piscine erano chiusi. Le loro attività non erano essenziali per profitti e successi. Ora sembra che nello stesso mondo dello 'sport che conta' non ci sia posto per tutti, qualcuno è di troppo.??Come qualcuno sembra essere di troppo in questa nostra società che rischia di ricominciare ancora con una dinamica di profitto e diseguaglianze a scapito di coloro che finiscono con l’essere «scarti e avanzi». Lo sport è sempre stato un mondo capace di «riflettere i princìpi fondamentali di solidarietà, inclusività e integrità» per tutti e non solo per i più fortunati. In quello spazio affascinante che è il terreno di gioco abbiamo assistito nella storia a imprese in stile 'Davide contro Golia', ovvero a partite impossibili che a volte terminano nel modo più inaspettato. Nel calcio come nella vita può capitare che una formazione di dilettanti come il Calais arrivi a giocarsi la finale di Coppa di Francia contro il Nantes, perdendola per un rigore al novantesimo minuto.  La possibilità di partecipare non può essere data dai soldi, dal prestigio e neppure dalla storia passata, ma da quell’inesauribile voglia di accarezzare un sogno mettendocela tutta, soprattutto là dove madre natura e destino sono stati avari. Lo sport ha sempre insegnato che all’inizio di ogni gara si parte alla pari non già sconfitti. È questo che rende la sfida emozionante e valorizza i piccoli o grandi talenti di ognuno. In questi tempi di pandemia, abbiamo sentito a più riprese che «nessuno si salva da solo», o ci salviamo tutti o nessuno si salva. Allora perché dare segni di separazione e di chiusura ostinata? Il calcio nella sua gioia più grande, il gol, festeggia con un abbraccio, in campo e sugli spalti. Nessuno può farlo da solo. Abbracciarsi è possibile solo se esiste un ricongiungimento con l’altro. Il monito paradossale di Sartre ci insegue e si capovolge: l’inferno non sono gli altri, l’inferno è l’assenza degli altri. In tutto questo il tifoso ha perso la voce. Ma non perché spesa in democratica e liberante partecipazione al boato collettivo. Ad attentare alla sonora passione dell’amante del calcio c’è semmai un amico diventato nemico che gli ruba la voce. Con il passaggio da certi universali e condivisi valori alla freddezza della Borsa valori. E lì, all’inizio dell’annuncio choc, il titolo della Juventus era salito dell’8.5 per certo, così come quello del Manchester United, dopo l’annuncio nottetempo del progetto Superlega finanziato dalla banca statunitense JP Morgan. Ma il calcio da che mondo e mondo è sport del popolo, quello che una volta riempiva di passione le domeniche trovando in questo gioco così miracolosamente semplice e complesso il modo per identificarsi e spesso sentirsi rappresentato. Storie di rivalsa e di lotta che hanno scritto pagine e pagine di libri di storia non solo sportiva, che vengono messi in soffitta per favorire chi il mondo l’ha sempre comandato. Coloro che dettano le regole in ogni campo, coloro che fanno i soldi nell’unico modo che si può, ovvero avendo i soldi. Coloro che lasciano le briciole agli altri. Coloro che calpestano i sentimenti universali che da decenni governano il calcio, pensando che tutto gli sia dovuto. Ebbene non è così, perché a meno che la gente non si adegui assuefatta a tutto, c’è sempre la possibilità di cambiare canale in tv, magari riscoprendo il gusto di andare sui campi di periferia tra maglie senza nomi stampati sopra, tra fango e pioggia, polvere e caldo, sudore e voglia di battersi a pallone in nome di quel simbolo che sta davanti al cuore. E che non ha prezzo. Rimaniamo ancora ancorati alle immagini di un calcio che affascina e che conserva i suoi tratti umani. Basta riannodare il nastro dell’incontro di due settimane fa Cagliari-Parma. I sardi ottengono un’importante vittoria in chiave salvezza, recuperando tre gol: un’impresa. A fine partita i parmigiani, ormai condannati alla retrocessione, escono a testa bassa. Un giocatore rimane seduto in terra e piange. Si avvicina un giocatore del Cagliari e lo consola a suo modo: nessuna carezza o abbraccio. Si siede accanto a lui e rimane vicino e in silenzio a guardare l’infinito. Che per lui schiude le porte di una desiderata speranza e per l’avversario in lacrime rappresenta l’anticamera del baratro. Eppure per un momento il calcio si riappropria di tutta la sua struggente bellezza. Gioia o disperazione, paradiso o inferno. Non è un caso che poche ore dopo sarebbe scoppiata la bufera, offrendo così le due facce del “gioco”, con l’annuncio della fantomatica Superlega. Quello è, e rimane, anche se c’è stato un deciso passo indietro, l’inferno vero.