Editoriali

Priorità educativa

Le dinamiche sotterranee che caratterizzano le relazioni sociali, i fenomeni di costume, le mode, raccontano in prima battuta che cosa ha il potere di ammaliare il cuore dell’uomo nell’odierno contesto culturale, ma, in un’ultima istanza, fanno emergere i bisogni profondi del nostro tempo.  Così parlare del planking, la strana sfida per cui i giovanissimi si sdraiano su strade buie scattandosi selfie in attesa che passi un’automobile da evitare all’ultimo momento, non significa semplicemente denunciare un’attitudine idiota, stupida e deprecabile, ma è un invito a guardare oltre, a guardare dentro ciò che spinge e determina gli adolescenti e i pre-adolescenti di oggi, nell’intento di riannodare il filo del dialogo con ciascuno di loro, compresi i più lontani e i meno considerati. Infatti siamo di fronte ad un fenomeno molto ristretto, diffuso in gruppi di ragazzi lontani da ogni aggancio sociale, sia esso religioso, sportivo o anche solo “mondano”, legato al mondo delle discoteche e dei locali notturni: le statistiche confermano che il planking è un’abitudine prevalentemente di nicchia, che affascina i soggetti più soli ed educativamente meno inseriti nei percorsi scolastici tradizionali.  È una sfida alla solitudine, nella ricerca del brivido di esserci e di sentirsi vivi, simile alle tante trasgressioni con cui si provoca la vita quando non la si sente più e la si vorrebbe terribilmente sentire. È il divertimento tipico di chi è alle prese con un vuoto, ma desidererebbe un “pieno”, di chi è chiamato ad affrontare se stesso, ma si trova spiazzato e disarmato dinanzi alle cocenti delusioni dell’esistenza e al dilagare di una realtà che sembra tradire la promessa di bene che ci portiamo nel cuore. Per questo i ragazzi coltivano l’estenuante ricerca dell’istante – dell’attimo – in cui percepire la loro vita come preziosa, significativa, di valore.  Il tema del valore dell’esistenza è il tema degli adolescenti di oggi, così sommersi da attestazioni di valore da non sapere più riconoscere il proprio valore, così chiamati a dimostrare di valere, da non essere certi di poterlo fare. Il planking fa quindi emergere la necessità di valere, di sentirsi “potabili” da parte della vita, delle cose, dell’esistenza. Ritorna prepotentemente alla ribalta il tema della “conquista”, della “consapevolezza”, della “verifica” personale del fatto di meritare la vita, il bene, il bello. I nostri ragazzi hanno così tutto che non sono più sicuri di niente, si sentono così sostituiti nell’avventura della scoperta di sé e del giudizio sulla realtà, che non riescono più a comprendere che cosa possa essere vero e che cosa – al contrario – possa essere falso. Si annoiano, non sanno come trascorrere spesso la giornata, vivono nel bisogno di un brivido da correre, di un rischio da giocare. Ma non c’è limite. Si deraglia e molto. È triste cercare una conferma al fatto di meritare di vivere nel fremito che ti dà il mettere a repentaglio la tua stessa vita. Eppure per molti non sembra esserci altra via d’uscita per capire, per avere un inizio di risposta al dilemma eterno dell’esser nostro, al fatto di sapere perché – per quale fine e per quale scopo – viviamo e siamo al mondo. Una questione urgente che tanti adulti dimenticano, sepolti dalla quantità di cose di cui si sono rivestiti, ma che in un giovane che si affaccia alla vita è il punto decisivo non per sapere che cosa fare da grandi, ma per decidere se la vita stessa valga la pena – o meno – di essere vissuta.  Siamo dunque in un «cambiamento d’epoca», abbiamo visto fenomeni nuovi affermarsi, abbiamo visto 'addirittura' un Presidente nero negli Usa e un Papa che dice 'Buongiorno' (e che proprio sul “cambiamento d’epoca” si è fatto ascoltare da quasi tutti), eppure su una cosa sembriamo arroccarci senza uno straccio di vero cambiamento: la scuola. Gli assetti fondamentali su cui questa scuola poggia sono, innanzitutto, l’assunzione quasi totalitaria dello Stato come agente educativo, non sempre davvero insieme alle famiglie. In secondo luogo, l’idea che la cultura e la formazione passino attraverso un’enciclopedia di competenze che nei programmi scolastici trova contenitore e metodo. Infine che la scuola debba formare al lavoro, cioè segua i peraltro flessibili orientamenti dei mercati e delle professioni.  È un paradigma che non a caso entra in crisi mentre vediamo in crisi altre organizzazioni nate da grandi ideologie nell’alveo della cosiddetta modernità illuminista. Oggi sono in crisi i media e l’idea che il cittadino informato sia migliore degli altri, sono in crisi i partiti intesi come mediazione tra potere dello Stato e infine lo Stato stesso non è più un potere autonomo e forte rispetto a forze sovrastatali che lo usano per scopi diversi dalla tutela dei popoli. Si tratta di grandi convulsioni, complesse ma evidenti. Occorre un nuovo paradigma educativo. Abbiamo delegato alla scuola, ad esempio, d’esser quasi l’unico luogo in cui avviene l’incontro tra ragazzi e adulti, dentro uno schema alunno-insegnante (impiegato dello Stato, spesso mal pagato) che non è forse il piú valorizzante.  Abbiamo piegato la scuola a essere solo 'abilitante' invece che educatrice perché questo comporterebbe scomode discussioni intorno al problema della autorevolezza. Abbiamo tutti chiuso i nostri ragazzi in edifici spesso orridi per cinque-sei ore al giorno perché altrimenti non si saprebbe come impegnarli.  I segni di sofferenza non sono quindi tanto e solo nei fenomeni odiosi di bullismo, ma in atteggiamenti diffusi di noia, di formalismo, di difficile collaborazione tra adulti, di schematismi assurdi, di follia scriteriata. Occorre mettersi tutti più a 'rischio' dinanzi alla domanda impetuosa di bene e alla fame di vita dei ragazzi. E occorre dunque bere a nuove fonti per scardinare ciò che ha generato un disagio tenuto chiuso come in una pentola a pressione. Con la paura di non farla scoppiare.