Editoriali

Far volare la cultura

Il Coronavirus ha creato uno stato di emergenza che, tra gli altri, sta mettendo in ginocchio tutto il settore della cultura e della creatività dell’Italia, un comparto essenziale non solo per la nostra economia, ma per la nostra stessa qualità della vita. Un ecosistema complesso, già endemicamente fragile, travolto da una emergenza contingente che ha portato alla luce difficoltà e contraddizioni che lo affliggono, alcune delle quali da tempo conosciute, ancorché ignorate. Una situazione a tratti surreale, che vede migliaia di operatori di ogni ordine e grado, di professionisti (molti dei quali senza alcuna indennità) e di imprese, accanto a milioni di visitatori (con una sostanziale paralisi del turismo interno oltre che quello internazionale), tutti “congelati” nel giro di 24 ore e fino a data da destinarsi.?Un impatto economico e sociale che inevitabilmente avrà risvolti negativi e a lungo termine, considerando che in una sola settimana di arresto forzato di ogni attività culturale si è registrato qualcosa come una perdita di quasi 108 milioni di valore aggiunto per la nazione. Una chiusura imposta che ha messo l’intero settore di fronte alla necessità di ridefinire tutte le proprie modalità di contatto e comunicazione, a “pensare in maniera laterale”, questo proprio per mantenere vivo il rapporto con cittadini e potenziali visitatori. In questo senso sono state sfruttate a pieno le potenzialità offerte dalle tecnologie, o dalle varie forme di smart working, ad esempio, non è stata più solo una possibilità, ma una necessità. Ne sono un esempio le dirette streaming e le visite virtuali che difatti hanno lasciato “aperto” molti musei in tutto il continente che in questo modo, e similmente a scuola e università, hanno superato i propri spazi fisici di condivisione, così da non interrompere il flusso nella trasmissione delle competenze e della conoscenza, o per espletare i lavori ordinari, o per creare straordinarie occasioni di diffusione culturale e forme di fruizione, tanto divulgativa che educativa. Per far questo, però, occorre superare le incertezze e innovare l’intero settore attivando nuove risorse (mentali, umane ed economiche) volte a favorire la creazione di una vera “digital strategy” dedicata e condivisa, secondo un piano di sviluppo comune e nazionale. Una prospettiva, questa, che offrirebbe da un lato ai luoghi della cultura inedite opportunità di crescita, anche in un momento di crisi, dall’altro una nuova forma di conoscenza per i pubblici, capace di sollecitare nuovi processi di attivazione, facilitando nuove opportunità di contatto. Perché non basta parlare di innovazione, né basta appellarsi al ruolo educativo dei luoghi della cultura, occorre che il patrimonio rimanga vivo, anche in queste settimane di incertezza.?Allora che questa crisi, al di là di tutto, possa attivare concretamente una profonda riflessione in merito al ruolo che vogliamo affidare alla nostra cultura, e per farlo occorre rileggere la parola “valorizzare” e capire che mettere-a-valore il patrimonio significa innanzitutto riconoscerlo quel valore, e saperlo diffondere in ogni modo, sempre. Perché se servirà ingegno per recuperare ciò che andrà perso nella produzione industriale, anche quella culturale avrà bisogno di sforzi concreti per rimettersi a “regime”, e questa sarà la vera sfida con cui dovremo confrontarci come sistema Paese superata la buriana. Aver trasformato, in quasi trent'anni, il patrimonio culturale italiano in un prodotto da vendere a buon mercato, puntando ossessivamente ai numeri di biglietti staccati e turisti stranieri, si sta rivelando un fallimento. Sia chiaro: il fallimento di questa visione era già evidente prima del Coronavirus. La differenza è che il lockdown del nostro Paese sta impietosamente dimostrando, numeri alla mano, che quel progetto era fragile, ambiguo e si poggiava su una logica di svendita permanente dei nostri musei e siti archeologici, sulla retorica da imbonitori della grande bellezza tanto al chilo e su soggetti privati privi di scrupoli che hanno portato alla distruzione dei centri storici nelle nostre città d'arte. Tutto questo va cambiato e pensato sin da ora, se non vogliamo arrenderci alla irrecuperabile perdita del nostro immenso patrimonio. Aver perso di vista l'idea di una cultura votata alla formazione del cittadino e non alla massimizzazione di un profitto, oggi ci porta a discutere di un disastro che altrimenti non avremmo avuto o avremmo avuto in misura diversa. Ora che la parentesi del virtuale si è conclusa perché le persone per fortuna hanno anche altro da fare; ora che si torna poco alla volta alla realtà, vengono a galla le questioni vere: come si fa a rendere cosa viva un museo? Ora che le risorse latitano, che i turisti sono forzatamente lontani, qual è la ragione profonda per la quale un museo dovrebbe stare aperto?  Sembra una domanda assurda, ma solo perché è sempre stata data un po’ troppo per scontata. Se sono luoghi di conservazione di tesori del passato o del presente, paradossalmente non c’è necessità che siano aperti. Idem se sono luoghi di studio. Insomma come si fa di un museo un luogo “necessario” per la vita collettiva, e non solo come attrattore di flussi turistici (cosa che per altro vale per i soliti pochi musei mainstreaming)?  In queste settimane qualcuno ha provato ragionare per trovare una risposta. Ad esempio dal Consiglio superiore dei Beni culturali (organo di esperti del ministero) è stata lanciata l’idea di “scuola museo”: non si tratta della semplice fruizione da parte degli studenti magari con percorsi dedicati. No, l’idea è quella che i musei si predispongano nei loro spazi spesso così larghi questo non solo per venire incontro a un bisogno delle scuole stesse costrette a organizzarsi sulla questione delle “distanze”, ma per far percepire il museo come spazio pubblico, come casa di tutti. E soprattutto per far respirare la bellezza come naturale sfondo dell’attività quotidiana. La bellezza non può essere vissuta come un dovere, ma deve agire per contagio: un museo può trovare una nuova ragion d’essere liberando questa funzione. Così potrebbe accadere che alla “conservazione”, ragione d’essere preziosa e insostituibile, si aggiunga anche lo stimolo alla “conversazione”: cioè la bellezza chiama ragionamenti, collegamenti tra il passato e il presente, riflessioni su chi siamo e su cosa davvero desideriamo. Conversazioni libere e fuori dal seminato come approfondimento della coscienza. Forse così i musei diventerebbero organismi davvero necessari e utili per l’ingarbugliato futuro che ci attende. Un progetto irrealizzabile? Verrebbe in mente una frase del genio Einstein: “La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e continua a volare”. O quella di Albert Camus, troppo abusato in questi frangenti con il suo romanzo “La peste”, riferita all’altro suo lavoro “Caligola”, con il dialogo tra l’imperatore romano ed il suo confidente Elicone… “Mi sono sentito all’improvviso un bisogno di impossibile” dice Caligola, perché il nostro cuore è fatto per desiderare cose grandi. Entrambe le espressioni ci invitano ad un briciolo di coraggio in più, forse incoscienza?, per abbracciare quell’impossibile che solo a parole può risultare lontano anni luce... Anche e soprattutto per fare vera cultura.