Editoriali

Centri storici in estinzione?

Sui media si è parlato, senza troppa enfasi o emotività, di urbanicidio. Addirittura? Sì, senza tanti sconti. Per raccontare di una due giorni a Lucca sul tema dei beni culturali e sul valore reale dei nostri centri storici. Stiamo parlando di qualcosa che è sempre in cima ai pensieri e ai programmi delle istituzioni specie quando ci avviamo all’ultimo tornante prima del voto. Poi la preoccupazione scivola via e l’urgenza si accatasta insieme ad altre pseudo priorità. Eppure I centri storici oggi più che mai sono i custodi di una memoria del costruire ormai del tutto scomparsa. La capacità di ogni centro di crescere su se stesso, ci restituisce una stratigrafia storico – architettonica delle diverse epoche, così accade che accanto o addirittura sullo stesso edificio si possano riscontrare elementi tipici medioevali perfettamente integrati con elementi barocchi o ancora che influssi provenienti da diverse culture si fondano in un’unica struttura architettonica. La ricchezza culturale che un centro storico offre è certamente da tutelare, ponendo particolare attenzione agli interventi che in esso si vanno a realizzare, avendo anche il coraggio di soluzioni “moderne” che però si muovano nel rispetto della storia e quindi dell’edificio in quanto custode di quest’ultima. Negli ultimi decenni hanno subito, e continuano a subire, un preoccupante spopolamento, graduale, quasi impercettibile, ma continuo, mentre meritano di essere valorizzati perché hanno tutte le potenzialità per divenire una fonte di ricchezza per i Comuni che hanno la capacità di investire correttamente in essi. Ecco il vulnus. Le nostre città hanno un problema. I centri storici delle città hanno allora un grosso problema. Ovvero il turismo di massa rischia di uccidere spazi quasi intatti, filologicamente spesso restaurati bene, perché il tessuto commerciale viene stravolto, vale a dire omologato dallo strapotere dei marchi internazionali, dalla fine delle botteghe artigiane e della gastronomia locale, dalla fuga dei residenti. Il termine lanciato in modo drammatico, urbanicidio, non può rivelarsi un boomerang, tutt’al più un monito, un segno dei tempi da raccogliere. Quel fenomeno contemporaneo che lascia i corpi urbani quasi intatti, ma ne uccide l’anima. Una pressione antropica che travolge i centri storici, ne svilisce il genius loci, favorendo l’espulsione ella vera vita di un aggregato urbano. C’è il diritto alla libera circolazione, quindi anche quello dei turisti, e il diritto degli abitanti di vivere normalmente in un centro. Occorre un equilibrio. Bisogna avvertire con chiarezza chi scommette sul turismo in crescita esponenziale: anche la massa si accorge che la diversità e l’originalità culturale che si andava cercando in un certo posto del mondo sparisce, si appiattisce con tutto il resto, superato un certo limite di guardia. Varcato quel limite, il turismo tende a ridursi e dirigersi altrove. Traduciamo in pratica: perché devo andare a Roma o in un’altra città se nel centro storico non trovo più una trattoria che mi cucini una pasta tradizionale, ma posso comprare solo cibo standard o se nei vicoli invece degli ebanisti e delle pelletterie mi imbatto solo in minimarket uno uguale all’altro? Il rischio quindi è che il turista non trovi più nel luogo che sta visitando l’eccezionalità che cerca e quindi si rivolga da un’altra parte. L’unicità evapora, l’uniformità irrompe. In questo contesto il lamento ha gioco facile a diventare metodo e abitudine. L’intelligenza non difetta e le soluzioni sembrano sempre a portata di mano. Ma a dispetto delle aspettative e del comune buon senso, le cose vanno sempre all’opposto di come vorremmo. Quasi ci fosse da confermare la prima, fondamentale legge di Murphy: “Se qualcosa può andar male, lo farà”. Si fa meglio a cercare gli strumenti o le persone giuste per intervenire, recuperando quella capacità di fare comunità che proprio la lamentela e la recriminazione tendono a minare. Sono necessarie politiche concrete per favorire la residenzialità, sono indispensabili adeguati parcheggi per non penalizzare chi vive nel cuore cittadino. E magari un investimento in comunicazione per spingere alla destagionalizzazione delle visite specie ai musei, non limitando i flussi ai soli mesi privilegiati. Altrimenti entro poco tempo i nostri centri saranno forse sì belli, ma vuote quinte teatrali per lo spettacolo quotidiano di un turismo sempre più di massa e meno colto. Vogliamo evitare questo scenario. Perché prima di tutto riqualificare un centro storico significa recuperare una identità culturale che altrimenti andrebbe persa, identità culturale che messa in “rete” con i centri limitrofi può divenire motore di crescita turistica, di servizi e quindi economica. In secondo luogo intervenire su strutture esistenti, riqualificandole energeticamente, significa salvaguardare il contesto paesaggistico-ambientale all’interno del quale il centro storico è ubicato e conseguentemente innalzare il livello di qualità della vita che, oltre al fattore economico si basa anche sulla percezione dell’ambiente che circonda ogni singolo individuo. Gli spazi esistono solo se ci sono gli uomini. E il problema dei centri storici, non solo in Italia ma ovunque, è che spesso non ci sono più gli uomini che ci vivono, ma solo uomini che li usano, che li sfruttano. In base a tale pensiero, troppe volte il centro storico si riduce ad una scenografia teatrale e, chiuse le attività, si svuota e si degrada (tipicamente nelle ore serali e notturne). La sfida di chi amministra centri storici è coniugarne la tutela con la necessità di costruire spazi dove gli uomini possano vivere in maniera armoniosa, soddisfando i loro desideri e bisogni. Sostenere attività a dimensione d’uomo, rivitalizzare i centri storici e garantire servizi diffusi sul territorio sono priorità di una battaglia non difensiva, ma tesa ad affermare un modello di sostenibilità in cui bisogna credere e che si incarna proprio nei nostri centri. II centro storico non è solo una città di pietra, di vestigia, di monumenti, ma una città delle relazioni e dell’uomo: qualcosa di vivo dove dobbiamo essere impegnati a continuare a far vivere. Pur tuttavia, non è una “tabula rasa”, bensì è una parte della città con una propria storia e, soprattutto, è caratterizzato da un suo intrinseco tema catalizzatore, più o meno nascosto e segreto, che deve essere fatto riemergere e rivitalizzato. Ma per vivere ha bisogno di essere abitato e non solo visitato o, come “spesso” avviene, episodicamente vissuto. Guardiamo di più e parliamo di meno.