Editoriali

Cosa ci lascia il Coronavirus

L’epidemia del Coronavirus, dopo averci costretto ad un progressivo silenzio nelle analisi, ci propone, di fatto, diverse riflessioni. Prenderne atto vuol dire apprendere dalle circostanze e sfruttare ciò che questa situazione di emergenza ci permette di capire su noi stessi e sulla società nella quale abitiamo. La prima riflessione ci proviene dal divario insostenibile che si è verificato tra l’emergenza sanitaria in Lombardia – dove mancavano i posti letto, il personale era insufficiente e costretto a ritmi di lavoro da vera e propria “prima linea” – ed i tempi dei provvedimenti governativi. Abbiamo perso troppo tempo. In pratica, la rapidità operativa costituisce un criterio preliminare e inaggirabile per ogni provvedimento. Tra una decisione del Consiglio dei ministri e l’arrivo dei macchinari e di tutto ciò che è necessario è passato un lasso di tempo che rischia sempre di avere risultati fatali. Il nostro sistema decisionale, o se si preferisce la nostra catena di responsabilità e controlli, è costellata da passaggi burocratici che, allontanando le decisioni politiche, anche le migliori, dalla loro realizzazione, apre la strada a esiti incerti. Quando tutta questa tragedia sarà terminata, avremo bisogno di un’Italia diversa, dove la differenza non sarà data dal colore politico di chi agisce, ma dalla sua capacità di modificare profondamente un sistema decisionale che limita l’efficacia di ogni provvedimento. Una seconda riflessione che emerge è data dalla mancanza di “parole chiare”. La scienza parla il suo linguaggio e la moltiplicazione delle interviste e dei pareri, incalzate dai ritmi dell’informazione sui media, sfocia spesso, inevitabilmente, in semplificazioni affrettate che la scatola mediatica contribuisce ad amplificare, ingenerando confusioni e fraintendimenti. Uscendo dal palazzo della politica ed entrando in quello della scienza, telecamere e reporter usano, di fatto, lo stesso metodo, dimenticandosi come un uomo di scienza non comunichi come un politico. La scienza vive di “distinguo” che la comunicazione mediatica non tollera ed è facile constatare come l’universo scientifico, spinto all’angolo dai ritmi delle dichiarazioni televisive, finisca per manifestare differenze non superficiali. La stessa scelta inglese di lasciare che il virus compia la sua selezione darwiniana, poi in parte rientrata ma ripresa dall’Olanda, costituisce un esempio di come si sia in presenza di scuole di pensiero diverse. Se confidiamo nella scienza, come è giusto che sia, ci dimentichiamo con troppa facilità come questa si muova dentro i tempi della ricerca e, operando nella dimensione della probabilità, non abbia risposte “chiavi in mano” come siamo abituati a ricevere, in particolare dal mercato farmaceutico che normalmente frequentiamo. Una terza riflessione risiede invece in un’area completamente diversa, quella dell’universo religioso. Sono flash di diversi giorni fa. L’immagine plastica del vescovo di Milano che sale sul terrazzo del Duomo per pregare alla “Bela Madunina”. O quella di Papa Francesco in preghiera, venerdì scorso, sul sagrato della Basilica di S. Pietro. Sono due appelli al sacro in piena consonanza con la gravità della situazione. Per chi ha piena coscienza della gravità della situazione le chiese manifestano un’indispensabilità della preghiera che non è meno impellente dei generi alimentari. Si tratta di manifestare il proprio dolore nel luogo principale dell’accoglienza, nel luogo antropologico per eccellenza dell’accoglienza: quello della casa del Padre. Ultima riflessione. Nella mappa globale del coronavirus l’Italia si è distinta per aver conosciuto un rapido aumento dei contagiati, superando le “vette” cinesi, ma soprattutto per l’elevato numero di decessi. Il motivo di questo triste primato si deve in gran parte alla struttura demografica del nostro Paese: poiché la Covid-19 è più letale per le età più avanzate, ecco che una nazione con un’età media elevata – e l’Italia è il secondo Paese più anziano al mondo dopo il Giappone – può trovarsi a dover pagare un prezzo maggiore. Tutto questo però non è sufficiente a giustificare una mortalità così elevata. C’è un’altra ragione, che spiega bene la maggiore fragilità italiana di fronte al coronavirus, e paradossalmente è proprio uno dei suoi riconosciuti elementi di forza: la maggiore relazionalità tra le generazioni, la struttura solida e diffusa delle reti sociali, la resistenza più elevata rispetto ad altri contesti della famiglia “allargata”, dove i contatti tra le generazioni sono più intensi e articolati. In sostanza, la maggiore propensione alle relazioni di un Paese latino, unita ai contatti frequenti tra genitori, figli, nonni, nipoti e molti parenti anche anziani, può essere stato un fattore decisivo nella diffusione più rapida del virus e nel causare un maggior numero di decessi. Il fatto è che noi italiani non siamo solo più anziani di altri, ma ci frequentiamo anche molto di più tra le generazioni. È il nostro bello. Nonni che tengono i nipoti mentre i genitori lavorano, adulti che si prendono cura dei figli piccoli e dei genitori anziani (la cosiddetta “generazione sandwich”), persone che fanno i pendolari per lavoro ma tornano la sera nelle case e nei paesi dove vivono con la famiglia e spesso con i genitori anziani in casa o vicini: una condizione, questa, che secondo i dati Istat interessa circa la metà della popolazione al Nord. Un tema molto delicato quello della “generazione sandwich”, gli adulti che devono occuparsi dei figli minori e anche dei genitori anziani con problemi di salute: se a queste persone non viene data una sufficiente copertura economica per poter attuare quel distanziamento sociale necessario, anche al lavoro, evitando ad esempio i contatti professionali fuori dall’ambito familiare di cura, il rischio può essere una moltiplicazione dei contagi. Avere le giuste precauzioni oggi può permetterci di continuare ad essere noi stessi, solidali e generosi, anche domani. Quando tutto questo sarà terminato e ricomincerà la festa permanente della “società euforica”, ci si dovrà ricordare di questi insegnamenti che le circostanze ci hanno indicato: una sanità eroica da ammirare, un sistema organizzativo-decisionale da liquidare, una scienza da riconoscere, un desiderio di Dio da custodire, un legame intergenerazionale da non recidere.