Dialogo

Rispolveriamo... la ferrovia

“Il 29 aprile 1866 il fischio della prima locomotiva rallegrava i fabrianesi”: così Oreste Marcoaldi, nella sua “Guida di Fabriano” pubblicata nel 1874, ricordava uno dei fondamentali eventi storici della nostra Città: con l’arrivo della ferrovia, arrivava anche da noi il “progresso” e, in un certo senso, l’apertura al mondo. Ma quell’evento è anche da ricordare perché quella ferrovia salutata con entusiasmo dai nostri bisnonni è rimasta praticamente la stessa negli oltre centocinquanta anni che si sono susseguiti da allora fino ad oggi. Si osserverà che, beh, in un secolo e mezzo le innovazioni sono state molte e radicali anche in ferrovia, cambiando e modernizzando lo stesso modo di servirsi del treno; ma, almeno per quanto riguarda la linea Roma-Ancona, non sembra che queste innovazioni si siano tradotte in qualità del servizio. Anzi, se si confrontano quello che si riusciva a fare con le tecnologie di un secolo e mezzo fa rispetto a quelle di oggi, non è detto che il confronto sulla qualità si possa risolvere a favore del presente. Una esperienza personale: l’intercity dell’11 maggio, atteso a Fabriano per le ore 16.28, dopo successivi annunci di progressivi ritardi, è arrivato alle 18.20 circa, per recuperare successivamente e arrivare a Roma con soli novanta minuti di ritardo; la spiegazione ufficiale data dall’Azienda Ferroviaria è stata quanto meno originale: non i soliti “motivi tecnici” che servono normalmente a coprire scarsità di efficienza o di manutenzione, ma “ritardo nell’arrivo del personale addetto” … Si dirà che un inconveniente ogni tanto, magari anche grosso, può capitare sempre e a chiunque, come in effetti capita; ma la situazione di questa disgraziata linea non è eccezione, ma ordinarietà quotidiana: i resoconti dei viaggiatori sono quasi sempre racconti di avventura, piuttosto che di banali trasferimenti. E questo, per non ricordare vecchie carrozze di seconda classe gabellate per prima (con il relativo prezzo…) nei treni regionali, piuttosto che un più semplice servizio di classe unica, come in molte Ferrovie europee; o orari fantasiosi attribuiti agli Intercity, piuttosto che la definizione di tempi di percorrenza realistici. E, su tutto, una struttura ultrasecolare di linea a semplice binario, rimasta tra le poche in Italia, senza serie speranze di raddoppio. Questo è quanto. E dobbiamo dar merito alla professionalità e alla buona volontà degli addetti se il sistema riesce, malgrado tutto, a funzionare. Perché è stato possibile tutto questo? Azzarderemmo l’ipotesi che le ferrovie, a partire dal Dopoguerra, siano state considerare uno strumento di comunicazione obsoleto, e quindi non meritevole di investimenti, e che l’alternativa, non disinteressata, sia stata quella di orientarsi verso le altre strade, quelle non ferrate (le quali, peraltro, neanche loro funzionano tanto bene qui da noi). Con questa premessa, si è riscoperto il treno solo quando il traffico stradale è diventato sempre più affollato e faticoso e quando ci si è accorti che le strade costituivano uno straordinario generatore di gas serra; allora si sono fatte le linee ad alta velocità, che hanno subito raccolto indubbi e meritati successi sul piano dell’avanzamento tecnologico e del servizio al pubblico. Le linee come la nostra sono così restate come i parenti poveri di una grande famiglia, snobbati e ignorati dai parenti ricchi; e così siamo costretti a tenercele. Ma forse la ragione più vera è un’altra; e la troviamo condensata in due parole che il citato Marcoaldi riporta come scolpite sulla pietra di un palazzo fabrianese del Cinquecento: “Inscitia Gubernantium”. Lapidario, no? Mario Bartocci